29 maggio 2017

E' come se il calcio si fosse (temporaneamente) congedato da se stesso



Premessa necessaria: non sono romanista. Non sono nemmeno un 'tifoso', ovvero un fanatico, ovvero uno che vede solo la propria squadra e perciò (in automatico) detesta le altre e ritiene immondi i giocatori altrui perché propri nemici o avversari. Detto ciò, aggiungo che il mio sarà un discorso molto infantile. Programmaticamente infantile.

Ho le mie preferenze, ma non esclusive. Stravedevo per Rivera, da bambino, ma anche per Riva; da adolescente impazzivo per Crujff. Pelé si poteva adocchiare di rado, l'ho visto soprattutto nel 1970 e mi sembrava un anziano fuoriclasse di superiorità così evidente che il pallone obbediva al suo pensiero, andando dove voleva lui anche senza transitare fra i suoi piedi. Poi ci furono anni senza giocatori così fantastici, finché non arrivò Maradona. Ma a me, per dire, piaceva di più il modo di giocare di Platini, forse perché mi sembrava più 'uomo-squadra'. Anche il Diego era spaziale, intendiamoci: ma troppo malandrino per i miei gusti, e (per dire) Pelé non lo era, o almeno io non credevo lo fosse. Maradona mi stupiva, certo: ma non mi emozionava profondamente. E - ripeto - con questo nulla ha a che fare la preferenza per una squadra o per non so cos'altro. Quindi mi feci queste coppie: Cruijff sta a Pelé e a Platini come Maradona a Baggio. Sì, a Baggio. Un altro non-uomo-squadra, lampi improvvisi e accecanti, protratte assenze. Ma era impossibile non volergli bene. Oggi ammiro Messi, certo, molto meno Cristiano Ronaldo, e poi certo, il precedente Ronaldo, il brasiliano, era spaventoso (e chi aveva mai visto un centravanti così?), ma gli infortuni lo trasformarono rapidamente in un giocatore diverso, non vorrei dire normale (anzi) ma certo non più in grado di travolgere a cento all'ora gli omini disposti sul campo a difendere lo spazio dalle sue barbare incursioni.

Ho il rimpianto di non aver visto dal vivo (o in documentazione filmata bastevole a farsi un'idea) il nostro Meazza, il grande Alfrédo, il colonnello ungherese (anche se, degli ultimi due, materiale sufficiente sussiste). Ricordo che Eusébio mi fece una grande impressione al mondiale inglese, ma furono solo quattro o cinque partite, poi sparì dal mio radar. 

Tra i nostri, negli ultimi vent'anni, tolto Baggio, tolto Del Piero (non mi colpiva particolarmente), tolto Pirlo, tolti i grandi difensori (va da sé), mi sono emozionato a fondo per un solo giocatore. Sì, uno solo. Quello che ieri ha appeso le scarpe al chiodo. 

Il romano, il romanista. Il Capitano. Il simbolo di una città in cui non sono nato, nella quale ho vissuto per un po', è vero, ma prima che lui iniziasse a frequentare i campi della Serie A. Il Capitano di una squadra che non è la mia, né mai lo sarà, ma che talvolta - in determinate situazioni - lo è stata, estemporaneamente, magari per una sola sera, per un solo pomeriggio. In generale, 'tifavo' per lui. Ho guardato la Roma sempre o quasi sempre, per meglio dire ho guardato le partite della Roma quando mi è stato possibile soprattutto per lui. Anzi: solo per lui. 

E in innumerevoli circostanze, in chiacchierate sul calcio con amici più o meno cari, quando tutto si è ormai detto e inevitabilmente si finisce col voler riassumere la discussione in una classifica (quali sono stati i giocatori più grandi nella storia del calcio? e tra gli italiani? chi metti per primo, per secondo, per terzo?), io ho sempre detto che lui, in quella classifica, ce lo metto, non dico primo o secondo o terzo. Lui, tra quelli che reputo essere le 'ragioni' della mia perdurante passione per il football, indubbiamente c'è. Per me c'è, eccome. "Ma figuriamoci, uno che ha vinto così poco. Che ha giocato solo in quella squadra. Lui, il viziato che ha avuto paura di andarsene perché meglio essere imperatori a casa proprio che signori nessuno o quasi in casa altrui". Discorsi così, risposte così.

Inutile spiegare. Ciascuno vive il football a proprio modo. Oggi, per esempio, non perdo (se posso) le partite del Napoli, anche se nel Napoli non c'è nessun giocatore che mi faccia davvero impazzire. Mi piace la musica, però. Mi piace vedere la squadra muoversi in quel modo, giocatori e pallone sempre in movimento, geometrie rapide, verticalizzazioni improvvise, e quel minimo d'improvvisazione che rende palese la differenza tra il Napoli di Sarri e la Dinamo di Lobanovski.

Ma torniamo al tizio di cui stavo parlando. Ha smesso di giocare, del resto si capiva che non era più in grado di tenere il ritmo. La sensibilità, il tocco sono sempre gli stessi: la rapidità nell'esecuzione è scemata. L'efficienza del suo gioco, ormai, ai minimi termini. Penso che il suo allenatore abbia fatto bene a centellinarlo, quest'anno. L'allenatore deve pensare alla classifica, e la classifica gli ha dato ragione. 

Ha smesso di giocare. Ieri all'Olimpico tanti erano in lacrime. Non sono romano o romanista, ma li capisco benissimo. Sono triste anch'io. Perché l'idea di non rivederlo più in campo mi rattrista. Perché è stato uno dei miei campioni preferiti, e sicuramente il preferito degli ultimi (perlomeno) quindici anni. Perché? Perché gli ho visto fare di tutto, in modi sempre diversi e inattesi. Cose che (è un mio parere) nessun altro è stato capace di produrre con uguale competenza e varietà. Cose da iperspecialisti, realizzate da uno che è nato come ala, divenuto poi trequartista, regista avanzato, 'falso nueve', mezzala. Tra qualche anno sarà difficile rispondere alla domanda: "ma dove giocava? in che ruolo?" I gol? In fondo i gol dicono poco. Ma sono stati tantissimi, alla fine se si guardano le statistiche ci si dovrebbe sorprendere. E le giocate decisive? Sono quelle che preferisco. Le aperture di prima, mettendo il pallone oltre la difesa sui piedi di un compagno in corsa distante cinquanta metri da lui. Gesti ripetuti, con assoluta nonchalance. Consiglierei di andare a cercare, tra le centinaia e centinaia di file video che lo riguardano, quelli che omettono i gol, "i dieci gol più belli", "i primi cento gol" e roba del genere; e soffermarsi su quelli che hanno raccolto materiale a sufficienza per capire il modo in cui lui ha giocato per la squadra, e non per se stesso. Risolvendo situazioni complicate. Indicando pertugi dove sembrava non ce ne fossero. Eludendo il pressing degli avversari con due mosse - una finta e un colpo di tacco. Un repertorio che qualcuno, prima o poi, catalogherà.

Questo giocatore non ha vinto tonnellate di palloni d'oro e non ha la bacheca infestata da Champions League o da Coppe che dir si voglia. Ha vinto pochissimo, è uno più da secondi posti che da gradino più alto del podio. Ha avuto anche sfortuna. Ricordo un giorno (doveva essere prima del mondiale del 2006) in cui mostrò alle telecamere come fossero ridotte le sue caviglie. Ah, quelle sono caviglie? mi chiedevo. Era difficile crederci. Però, in effetti, effettivamente, le caviglie stanno di solito esattamente lì dove lui ora indica. Va bene, è un professionista, pensavo, ma mi domandavo anche come fosse possibile che sua madre gli permettesse ancora di giocare a pallone. Era il 2006, sì. Stava disputando una stagione spaziale. C'erano i mondiali, e lui ci arrivò fuori allenamento, appena uscito da una convalescenza probabilmente frettolosa. Non era lui. Era un lui dimezzato. Anzi, molto più che dimezzato. Riuscì ugualmente a lasciare qualche segno importante del suo passaggio in quel mondiale che l'Italia inopinatamente vinse; ma poi la critica premiò Fabio Cannavaro come simbolo (e capitano) della squadra campione del mondo. Non capisco, pensavo. Anzi, non capiscono. Pazienza.

Resterò sempre della mia idea. Lui è stato un genio assoluto. Uno dei più assoluti tra quelli che ho conosciuto. Mi ha regalato emozioni, tantissime. Inebrianti. Mi piacerebbe che questa grandezza gli fosse riconosciuta da tutti, non solo da romani romanisti. Spero che, col tempo, questo riconoscimento arrivi. So che sarà difficile. Tutti i nostri grandi campioni, chi per un motivo chi per un altro, non hanno mai goduto dell'unanimità nel giudizio. Con la sola eccezione, forse, di Mazzola padre. L'orrore e la pietà, in quel caso, resero superfluo ogni discorso critico, anche in prospettiva.

Naturalmente ho parlato di Francesco Totti, lo aggiungo anche se non ce n'è alcun bisogno. Ha abbandonato la scena tra le lacrime sue e dei suoi sudditi. A Roma chissà quando nascerà un altro così. Ma per quel che mi riguarda il discorso non vale solo per Roma. E' un discorso generale. Guardo i giovani campioncini, già ipervalutati, che si sono affacciati in questi ultimi tempi sui campi della Serie A, e che rappresenteranno il paese indossando la maglia azzurra nel prossimo futuro. Sono bravi? Forse. Bravini, magari. Tra di loro, però, non vedo nessuno che abbia un centesimo del talento di Francesco Totti. Che ieri ha dato l'addio al calcio. Il calcio seppellisce sempre i suoi 'grandi' mentre altri ne sta generando all'insaputa di tutti. In questa ignoranza del futuro, mi dico che ieri è stato come se il calcio si fosse momentaneamente congedato da se stesso.

Mans