28 aprile 2016

I progetti del Cholo

Fettine di Coppa: semifinali (andata)

"Mancano dieci secondi!"
Il Cholo decide un cambio, manca davvero pochissimo alla fine, siamo già nei minuti di recupero. Poi il pallone termina in fallo laterale, nella metà campo del Bayern, e il cambio non si fa più. Non c'è più bisogno di spezzare ritmo e perder tempo. Peccato, però: fosse entrato in campo, e pur essendo destinato a rimanerci per pochi secondi e forse a non toccar boccia, Lucas Hernández, vent'anni da poco compiuti, sarebbe stato il settimo 'canterano' schierato da Simeone in una semifinale di Champions League. Sette 'canterani' del secondo club di Madrid contro la poderosa corazzata del Pep.

Il primo tempo dei Colchoneros è stato imbarazzante. Per il Bayern, s'intende. Scaduto a squadra qualsiasi, mediocre, impotente. Come un brillante oratore che, all'improvviso, non riesce a concludere un discorso, una frase. C'è riuscito solo Alaba in un frangente, quando - stufo di quelle inutili chiacchiere - ha calciato da chissà quanti metri una botta spaventosa, senza effetto, schiantando la traversa. Ogni trama, di fatto, si incagliava subito, e quelli dell'Atlético sembravano tredici o quattordici. Sempre in superiorità numerica. E comunque, tutti disposti a morire sul campo piuttosto che rinunciare a rincorrere avversari e palloni: lo ha dimostrato chiaramente Augusto Fernández quando, colpito alle parti basse e col respiro mozzato, invece di accasciarsi si è lanciato all'assalto, piegato in due.

Uno a zero, dunque. E una partita che scorre per 90 minuti esattamente come aveva pensato e progettato Simeone. Comprese le pause, incluse le fasi di difficoltà. Difficilmente, d'altra parte, accade il contrario. Per chi gioca contro l'Atlético, trovare contromisure, scovare lati deboli, tirare in porta è un problema. Possesso palla, sì: Simeone lo concede volentieri, ma lo rallenta e fa in modo che in possesso di palla siano proprio gli avversari meno dotati tecnicamente, quelli meno imprevedibili e fantasiosi. Soprattutto, quelli che non sono specializzati nel condurre le danze. Quando, superato ogni scoglio, la sfera è tra i piedi dei talentuosi (Douglas Costa, per esempio), le maglie a protezione dell'area si infittiscono ancora di più. Ed ecco che Guardiola si trasforma in un Mazzarri qualsiasi: "la circulación del balón es lenta porque el campo no ayuda. El césped estaba seco, ya sabíamos que iba a ser asi" [vedi]. Mah!

Lewandowski, giusto? C'è poco da fare. Non si passa

Il piano del Cholo regge sempre, sino alla fine. Con poche eccezioni, che confermano la regola. E quelle eccezioni hanno stabilito (nel passato recente) un credito con la sorte che prima o poi dovrà essere riscosso. Vedremo all'Allianz se è giunto il tempo di passare alla cassa per un primo acconto.

26 aprile 2016

L'esagerata festa juventina e le surreali esalazioni del Milan


I numeri del potere: insindacabili
Nostra Signora, irritata per i moti di ribellione fomentati in autunno da alcuni scalcagnati capi-popolo (da Sarri a Paulo Sousa, da Mancini a Garcia), ha ripreso il cavallo e cavalcato per le terre del Regno infliggendo frustate a destra e a manca, pur con una certa gentilezza e senza mai mostrare il volto davvero feroce. Nessuna seria goleada, in sostanza, e qualche partita di cartello arraffata negli ultimi istanti. Ordinaria amministrazione, si direbbe: le scene di giubilo per il quinto titolo consecutivo suonano dunque parecchio forzate. Era un obiettivo minimo. Vista da 'fuori', brucia di più la cacciata dall'Europa all'altezza degli ottavi di finale: che questa Juve non sia rimasta nell'elenco delle otto migliori squadre del continente è cosa difficile da digerire. D'accordo, sarà per l'anno prossimo, si dice sempre, sperando.

Ma c'è chi sta peggio, parecchio peggio. Trenta e passa punti più in giù, esala il Milan alla ricerca della dignità perduta. Perde nella solita Verona una partita che conduceva, e la perde prendendo gol sull'ultimo calcio piazzato: trasformandolo con sapienza, Siligardi ha ridato senso a un pallone maltrattato da tutti per novanta minuti, dispiaciuto a quel punto di non poter più essere preso a pedate visto che scoccava il 95° minuto e i cancelli dello stadio erano prossimi alla chiusura. Il Milan, già: di questa squadra, il padrone non sa più che farsene e cosa fare. Non può metterla in soffitta o in cantina; non può venderla alle bancherelle dell'usato di Lambrate ma nemmeno a qualche magnate o a qualche cordata planetaria (cinese o anche no), dunque l'ha affidata a Brocchi, mandando in fumo quel poco di arrosto che Sinisa Mihajlovic aveva messo sul fuoco.

L'unico che non salta, in barriera, è il capitano.
Kuco e il giapponese, invece, saltano e nascondono la traiettoria
della sfera all'eroico Donnarumma

Mistero, ma fino a un certo punto. Svanita l'ipotesi del terzo posto e anche del quarto, remota quella di contestare alla Juventus la coccarda rotonda (che ci sia partita tra le due il 21 maggio all'Olimpico pare onestamente una concessione al surrealismo pedatorio), perché difendere il sesto e condannarsi ai preliminari di Europa League, rinunciando dunque alle consuete, lunghe e lucrose torunée di luglio e d'agosto negli States o in estremo Oriente? Sotto questo aspetto, certamente, non si può disconoscere alla società una notevole lungimiranza. Sotto questo aspetto, Brocchi è stato il classico uomo giusto nel momento giusto sulla panchina giusta. Infatti, la qualità del giuoco è ulteriormente scaduta, i risultati peggiorano e tra i titolari hanno rifatto capolino ex-giocatori e non-giocatori, come il demiurgo pubblicamente desiderava. 

Oggi rinunciamo a commentare le leghe estere. In Spagna non è accaduto nulla di nuovo: gli otto gol di Suarez in due partite dicono però di una progressiva cristianoronaldizzazione dell'uruguagio. Quanto alla Premier, si possono solo incrociare le dita e tapparsi le orecchie quando si sente qualcuno dire che ormai, per le Foxes, è fatta ...

A proposito del Leicester. Il valore della sua rosa è calcolato da Transfermarkt in 127 milioni di euro [vedi]: 60 milioni giusti giusti in meno del valore di mercato (pur calante) attribuito alla rosa del Milan [vedi]. Oddio!

Va beh, alla prossima.

18 aprile 2016

Paella valenciana e altre portate


Partiamo con un quiz facile, al quale però si devono sottoporre solo coloro che s'affacciano alla nuova settimana ignari di quel che è successo nel week-end sui campi di pallone del mondo, vicini o lontani. Sabato il Real ha demolito il Coliseum Alfonso Pérez di Getafe: cinque a uno. Cristiano, un solo gol. Quale dei cinque? E a quale minuto di gioco?

D'accordo, era proprio facile facile, non vale la pena nemmeno di fornire la risposta, in calce, scritta con scrittura capovolta. Ma era facile prevedere che i Taronges banchettassero con paella valenciana sul prato sempre più ospitale di Camp Nou, ieri sera? No, non era facile. Del resto, ormai l'area di rigore del Barça è puro open space. Che la squadra sia stanca, stanchissima, statica e satura si è capito nell'azione del secondo gol, stampato dal Valencia giusto allo scadere del primo tempo, e dunque nel momento peggiore per chi lo incassa: lunghissima melina sulla trequarti destra, vicino alla fascia, metà campo difensiva catalana. Niente pressing, o pressing lento, annebbiato. In realtà, quelli del Barça stanno a guardare, indecisi e confusi. Poi, cambio di gioco improvviso - ma prevedibile. E, a chiudere, un affondo nel burro, perfezionato con un certo aplomb da Santiago Mina Lorenzo, scuola Celta, nativo di Vigo, a noi sempre cara.

Titolisti compiaciuti

Dunque, mancano cinque partite, le tre grandi di Spagna sono tutte insieme o quasi. Il calendario non sembra favorire alcuna delle tre (nessuno scontro diretto in cartellone, purtroppo), ma è un dettaglio che vale quel che vale. Il Barça non ha più l'Europa, ma è parecchio male in arnese. E' vero che - discorso valido anche per il Real, sebbene in minor misura - basta una giornata di luna buona per i tre davanti, e tutto potrebbe tornare a fluire e fiorire con naturalezza (gioco e risultato). Ma giornate così sono diventate rare. E la condizione atletica generale, così come quella mentale, pare al minimo. E si gioca sempre in undici. Quelli di Rakitic e di Piqué, dopo i gol subiti, erano sguardi di gente che ha capito l'antifona. Resta difficile azzardare pronostici. Seppellivamo, insieme a quello francese, la salma del torneo a febbraio. Non è mai stato così vivo. E ferocemente conteso.

Questa è simulazione, sostiene Jonathan Moss, il referee.
Giallo e poi rosso per Jamie Vardy
Il Leicester (squadra che gode di un sostegno ormai universale: è al momento e certamente l'undici più amato nel mondo; induce infinite analisi, che accontentano sia gli appassionati delle favole e della retorica sia quelli cui piace veder ridimensionata ogni impresa) ha mancato il primo dei suoi due match-ball: pari interno con gli Hammers. Strappato dalle Foxes all'ultimo respiro. Un rosso per Vardy, un rosso sul quale tutti discutono (a noi troppo limpido non è sembrato; e meno limpido ancora è parso il rigore assegnato al Leicester nel recupero: chiara compensazione). Lassù s'annunciano partite da infarto, se stasera il Tottenham riesce ad arraffare i tre punti sul difficile campo di Stoke, accorciando le distanze.

"Prova a stopparla decentemente, se sei capace"
(dice il doriano)
A casa nostra, tutto è finito o quasi. La corsa per il titolo, senz'altro. Sarebbe consigliabile, almeno per i prossimi cinque-sei anni, istituzionalizzare un handicap di partenza per la Juventus. Non meno di quindici punti. Cosa si può aggiungere? Solo il rimpianto per come Allegri ha gestito la mezzora finale dell'Allianz Arena. In questa stagione quasi perfetta, quell'eliminazione peserà come un macigno sulla sua coscienza - relativamente, si direbbe; sembra uno sempre più sicuro di sé e delle proprie capacità. Nel frattempo, alle spalle di Nostra Signora, il Napoli sbraca e lo spogliatoio romanista esplode. L'Inter - che un po' sale e un po' scende - stavolta sale. Il Milan spezza le reni alla Samp: terza sfida in pochi mesi, esito sempre uguale. Brocchi in panchina, all'esordio. A fine partita, piange di commozione, ed esalta la virilità della truppa. Forse sperava di perdere e di essere immediatamente accantonato, e invece gli toccherà restare per un po' in quella gabbia di matti. Balotelli ha giocato discretamente il primo tempo (è una notizia, sì), poi è sparito. Non a caso, ma solo a quel punto, ha fatto capolino Bacca, il risolutore. L'ottometrista, anzi: nello scorcio dell'area, se vede la porta, castiga. Fuori dal suo habitat, è un catalogo di mediocrità pedatorie assortite. Di mediocrità pedatoria assoluta è invece campione Bertolacci. Dopo due minuti spedisce fuori dal campo, con un tocco di mestissima quanto raffinata broccaggine, un pallone ordinario, banalmente recapitabile a un qualsiasi compagno posizionato pochissimi metri più in là. In quel preciso istante, parecchi milanisti, già provati dall'orrenda settimana appena trascorsa, hanno reagito d'istinto. Imprecando, spegnendo la tv, e ripromettendosi di non riaccenderla più fino a quando non saranno arrivati i cinesi con valige stracolme di bigliettoni da investire e, nel doppiofondo delle medesime, qualche sospirato top-player. Sapendo anche che potrebbero non arrivare mai, o non così presto: né i cinesi, né i top-player. Si sono svegliati stamani sentendo dire che Mario avrebbe detto che lui vuole restare al Milan. Certo, dev'essersi finalmente divertito nei giorni scorsi all'asilo di Milanello, assistendo alle performance di Coach John Maori e provando poi a centrare con qualche pallonata il drone messo in orbita da Brocchi. Non c'è riuscito, deve ancora aggiustare la mira. I milanisti però non ne vogliono più sapere di lui e se la prendono con Galliani. Tuttavia, è chiaro come l'unico autorizzato a decidere cosa farà e dove andrà Balotelli non sia Galliani e non sia nemmeno Berlusconi. L'unico autorizzato è Raiola. E difficilmente vorrà accasarlo all'Entella o all'Hong Kong Express.


Alla prossima.

14 aprile 2016

La legge del Calderón

Fettine di Coppa: quarti di finale (ritorno)

L'hanno fatto ancora, dunque. Per la seconda volta in tre anni, i Colchoneros hanno chiuso le porte della Champions in faccia al Barça già entro la metà del mese di aprile. L'hanno fatto ancora, e dunque non è più una sorpresa. Che sarebbe accaduto, d'altra parte, parevano sicuri i 60.000 del Vicente Calderon, allestito per una serata di festa e ubriaco di birra e di gioia già al calcio d'inizio.

Colchoneros festanti

Cosa frullasse nella testa dei catalani si è capito subito. Hanno affrontato la partita con il piglio intimorito dell'undici che deve trovare il modo di sfangarla. E qual è il modo più congeniale per loro? Ovvio, il possesso palla. Infinite reti di passaggi orizzontali, anche a disegnare archi tra le due fasce, purché la metà campo non venisse superata. Potendo, avrebbero portato la loro esibizione di arido palleggio fuori dallo stadio, allontanandosi dal match lungo la riva del Manzanarre, sparendo nel tunnel delle semifinali per inerzia, perché il pallone era loro e non lo mollavano mai. Di fronte a questo atteggiamento, Simeone ha mostrato tutta la sua ormai raffinata (nonostante le apparenze) ed esperta sapienza. Non ha lanciato i suoi all'immediato arrembaggio; non li ha preparati per pressare sistematicamente i palleggiatori dell'ultima linea; ha scelto i momenti, un occhio al cronometro e uno al serbatoio. Nella prima mezzora, quelli dell'Atlético hanno aggredito due o tre volte, e la terza sortita li ha portati al vantaggio. La difesa barcellonista, di questi tempi, è uno scempio: per uccellarla facilmente, bastava solamente avere pazienza, aspettare, cogliere l'attimo.

Apprezzabile la ferrea marcatura cui è sottoposto Griezmann
in occasione del primo gol

Schiodato il tabellino, iniziava la fase due programmata dal Cholo. Defensa y contragolpe, da taccuino. Pochi rischi veri ha corso Oblak, a dire il vero. Nitide occasioni per i blaugrana, su azione, nessuna. L'unica, oltre il 90°, per una punizione dal limite (doveva essere un rigore, ma Rizzoli ha compensato i padroni di casa, cui l'aveva negato verso la fine del primo tempo). Dalla piastrella prediletta di Neymar ha tirato (per puro egoismo) Messi. Malissimo. Lo stadio era silenzioso, finalmente. Un silenzio di religiosa meditazione. La paura genera fischi; quel silenzio esprimeva una preghiera. Chiedeva giustizia, e l'ha ottenuta.

Morale della favola: in 180 minuti, il Barca ha fatto gol solo quando ha potuto giocare in superiorità numerica. Ha giocato con questo vantaggio per un'ora a Camp Nou. In parità numerica, l'Atléti ha evidenziato una nettissima superiorità tattica e dinamica oltre che mentale. Non ha meritato di passare: ha strameritato.

Il resto dei quarti, nel match di ritorno, ha detto poco. Sì, il City è andato oltre i propri apparenti limiti, superando il PSG. La stampa transalpina ha strapazzato Blanc e le sue scelte di modulo, ma onestamente nelle due partite, appena il ritmo si è alzato (facendosi ritmo da Premier League), i Citizens andavano a velocità doppia.

A Real e Bayern l'urna aveva assegnato avversari di categoria parecchio inferiore, Benfica e Wolfsburgo. I bavaresi se la sono cavata meglio, tutto sommato, ma senza incanti di gioco e rombi di goleade. A Madrid si celebra Cristiano e la sua tripletta, nella quale si è risolta un'attesa (e scontata) remuntada. Certo, non sono stati gol di bellezza particolare. Fortunosi la loro parte il primo e il terzo, mentre il secondo ... Beh, il secondo ha certificato la modestia assoluta, prossima alla dabbenaggine, della difesa tedesca. Cristiano che ha tutto il tempo e lo spazio per un terzo tempo e una zuccata chirurgica, nel pieno dell'area di rigore, libero e incustodito. Su calcio d'angolo. C'è altro da dire?

11 aprile 2016

Il sortilegio dell'Anoeta e le imprese che non hanno fine

Difficile passare, va ammesso
Ci dev'essere un sortilegio, una maledizione. Qualcosa ci dev'essere. Il Barça di quest'ultimo decennio ha vinto dappertutto: mai, però, a San Sebastián. Lì, nel Municipal de Anoeta, paga regolarmente dazio, e pressoché regolarmente lascia i tre punti - li ha presi, per l'ultima volta, nel 2007. Cioè nella temporada che vide i baschi cadere in Liga Adelante. Sabato, senza Suarez, con Iniesta e Rakitic in panchina, i catalani sono andati immediatamente sotto. Ma poi, nonostante disponessero sostanzialmente di tutta la partita per risalire, il tabellino non ha registrato novità. Tonicissimo, l'Atlético si porta a soli tre punti. Il calendario è favorevole a Messi. Ma la sua luna è storta, sbaglia cose che di solito gli riescono a occhi chiusi. Inoltre: gli errori difensivi sono più frequenti del solito; la pressione 'alta' è meno organizzata ed efficace del solito; il 'gioco' scorre meno veloce del solito; la stanchezza è smaltita meno rapidamente del solito. E ancora: troppe partite concluse senza sconfitta, una serie conclusa poche settimane fa; e dunque: assuefazione. Tocca a Luis Enrique, ora, dare qualcosa in più. Lo dice lui stesso [vedi]. Se l'Atlético è a meno tre, il Real si riporta a meno quattro. Si aggiunge alla mischia, vincendo facilmente una partita facile, come d'abitudine, al Bernabéu. Succede spesso, quando i Blancos sono reduci da rovesci europei. A quel punto, le stelle si riaccendono e minacciano (talora compiendone) sfracelli. Martedì sera al Bernabéu, e mercoledì al Calderon, la stagione eu(ro)pallica emetterà i primi importanti verdetti.

Le imprese delle Foxes non hanno mai fine. Hanno guadagnato la qualificazione alla Champions dell'anno prossimo. E Vardy imperversa su tutti i campi, da autentico top-player. Lineker suggerisce a Hodgson di tenerlo costantemente insieme ad HurryKane nella linea offensiva dell'Inghilterra agli europei: una coppia destabilizzante, imprevedibile, forse devastante. Ora a Ranieri mancano solo cinque partite, con un vantaggio di sette punti sul Tottenham da difendere. Arbitra il Chelsea, detentore della Premier, che dovrà incontrare entrambe, ed entrambe a Stamford Bridge. Per scaramanzia, si preferisce non aggiungere altro.

Mannone, portiere del Sunderland, ha chiesto di poter fumare l'ultima sigaretta

Anche le imprese del Milan non hanno mai fine. Regolarmente perde partite che si trova a condurre. D'accordo, è accaduto con la Juve e ci sta, come ci sta anche il paio di parate ai limiti del miracolo regalate da Buffon al Meazza - pieno, sì, ma soprattutto di juventini. Della Juve tutto si sa. Del Milan anche: mai tuttavia è parsa così evidente la povertà dei suoi ricambi. Quando gambe e riflessi dei 'titolari' sono pesanti, dalla panchina può arrivare solo ulteriore zavorra. Non che i titolari garantiscano alcunché: la 'quadra' trovata a un certo punto da Sinisa pareva comunque precaria, e gli infortuni l'hanno costretto a ricominciare daccapo. 

Dire che il Milan ha bisogno di una 'rifondazione' è banale. Lo capisce anche un neonato. Quali siano i reali progetti, le reali intenzioni della 'famiglia' e del 'capo-famiglia', tuttavia, nessuno può sapere davvero. Il che è una fortuna per pennivendoli e opinionisti televisivi, che ogni dì possono escogitare scenari editi e inediti ed esercitarsi in diuturne chiacchiere da bar. Qui, si preferisce aspettare e vedere. Poi se ne riparlerà. 

La domenica si è spenta con le tristi immagini arrivate da Palermo. Festa organizzata dagli ultras: pestaggi fuori dallo stadio; dentro, bengala ripetutamente gettati sul campo, tra i piedi dei giocatori. Immagini insopportabili. Prima che la partita finisse, quindi, abbiamo spento la tivù.

7 aprile 2016

Il ronzino imbizzarrito e la cacciata del figliol prodigo

Fettine di Coppa: quarti di finale (andata)

Hart si butta dalla parte sbagliata
e para il rigore perché ha abboccato alla finta
Mercoledì sera, Parc des Princes. David Luiz ci impiega meno di un minuto a riscuotere un cartellino. Poi sgraffigna un penalty. Poi mostra a qualche miliardo di telespettatori come non si deve muovere un difensore sul contropiede avversario. PSG - City è tutta nelle nefandezze dispensate a piene mani da campioni e ronzini, e nella categoria dei ronzini il brasiliano svetta da autentico, bizzarro fuoriclasse. Ibra alterna errori banali a colpi geniali, Aguero è in serata astratta, Di Maria gira a vuoto, Hart resta il peggior portiere del mondo anche se para alla grande il suddetto rigore calciato da Ibra. Thiago Motta - uno che il pubblico contesta spesso e volentieri perché vecchio e lento, ancorché di fosforo assai guarnito - estrae dal cilindro una verticalizzazione del tutto simile a quella con cui un secolo fa Rui Costa spedì Sheva in porta a San Siro contro il Real. Ibra raccoglie e smaltisce in curva: troppo facile, forse. Alla fine della roulette russa, il tabellone si spegne registrando un sacrosanto pareggio. Può essere che i Citizens non siano entusiasti dell'arrivo di Guardiola, come non lo erano tre anni fa quelli del Bayern: e dunque, per dispetto o per antipatia, magari alzeranno la coppa, come fecero i bavaresi innamorati di Heynckes. 

Mercoledì sera, Volkswagen Arena. Competizione strana. Qui il Madrid - reduce dalla fastosa presa di Camp Nou - ha rimediato una figuraccia impronosticabile. Ora i media drogheranno la squadra, c'è la possibilità di un'altra storica remuntada: per loro, quella tedesca è terra di frequenti disfatte poi rimediate (di regola, ma con qualche eccezione) al Bernabéu. Dove però gli aficionados si recheranno muniti di moltissimi fazzoletti bianchi. Non si sa mai. Povero Zizou.

"Sono le regole di Camp Nou, Fernando.
Gli spogliatoi sono da quella parte"
Martedì sera, Camp Nou. Pareva segnata, l'ha notato anche Righetto Sacchi. Il disegno della partita messo giù dal Cholo aveva preso vita in campo, e subito l'inatteso figliol prodigo (ed ex ragazzo-prodigio) s'era fiondato tra i metri (troppi) che distanziavano Mascherano da Piquet, esplodendo un destro in corsa che bucava le gambe di Ter Stegen. Il meno strombazzato dei protagonisti era il simbolo quasi scomparso di un'epopea ancora recente dei Colchoneros; dopo il gol un eccesso di adrenalina lo portava a compiere un paio di sciocchezze che il regolamento di Camp Nou non consentiva all'arbitro di ignorare: giallo più giallo uguale Atletico in dieci per un'ora, puro ossigeno per un Barça molle e impreciso, statico e prevedibile, in una delle sue peggiori edizioni degli ultimi tempi. I vecchi filibustieri hanno retto per un po', assemblando una collezione di gialli da record; hanno ancora sprecato un paio di buone situazioni, ma poi hanno preso atto d'essere destinati all'eroica fine di un manipolo accerchiato e sfibrato, arretrando sempre più vicino all'area, poi inevitabilmente  dentro il perimetro dell'area di rigore. E nei sedici metri riceveva palloni sui piedi e da fermo Neymar, funambolico e impreciso, mentre Suarez preparava i suoi agguati; sarà lui a colpire. Messi girava al largo, vuoi per trovare spazi e ispirazione, vuoi per tenere al coperto caviglie e garretti. Ha anche dispensato errori di tocco inusuali: serata di luna storta per lui, forse condizionata da preoccupati pensieri, cosa che ormai non di rado gli capita. Finisce dunque con l'inerziale benché misurata rimonta blaugrana, ma tra otto giorni al Calderon tirerà una brutta aria. La sfida è tutt'altro che chiusa.

Martedì sera, Allianz Arena. La serata dei rimpianti. Quelli juventini. Un solo gol, di un ex-juventino. Nient'altro. E nulla che giri bene al Benfica, come da ormai lontana tradizione. Il Pep porterà i suoi in semifinale - è davvero probabile. Mai come quest'anno, tuttavia, c'erano le condizioni perché la coppa tornasse in Italia. Le grandissime d'Europa vivono una stagione - se non propriamente grigia -abbastanza declinante, un varco si era aperto e alla Juve bastava tenere a bada per un paio di minuti ancora il sordido richiamo della sconfitta. E risvegliarsi temuta e potenziale padrona.

4 aprile 2016

L'ira funesta del Pipita e la morale della favola


Capitano giornate di calcio in cui agli uni va tutto per il verso giusto, e agli altri per quello storto. Tra quelli cui è andato tutto storto, vi sono naturalmente gli 'squadroni' milanesi. Ma procediamo con calma.

Sabato sera, con ormai abituale nonchalance, la Juventus ha aggiunto i tre punti che voleva alla sua classifica; come ormai d'abitudine, la resistenza opposta a Nostra Signora dagli avversari (l'Empoli, stavolta) non è parsa di quelle strenue. Allo Stadium si paga dazio, e ci s'accontenta di una fattura non troppo salata. Magari senza ricorrere al catenaccio, pregustando i complimenti della critica.

L'ira funesta
Domenica all'ora del pranzo, la tragedia. Forse non è parsa tale per via delle discrete condizioni atmosferiche; ma gli ingredienti sono stati quelli tipici che, nella storia dei nostri campionati, hanno caratterizzato il tracollo di una delle pretendenti. Il Napoli, stavolta. L'allenatore e il capocannoniere espulsi, i due rigori assegnati all'Udinese, una prestazione sottotono, prossima all'impotenza. Tre a uno, e addio a tutti quei bei sogni. L'ansia di dover sempre inseguire, l'ansia di dover sempre giocare dopo la Juve che ha già vinto: queste le spiegazioni date da Sarri alla vigilia della partita. Poi, va detto che l'allenatore dell'Udinese, in panca dalle idi di marzo o giù di lì, aveva evidentemente trascorso i mesi di riposo forzato a studiarsi il gioco del Napoli. E' stato il primo, quest'anno, a rendere impraticabile il laboratorio di idee, interscambi e triangolazioni rapide nel quale tutto sgorgava, là sulla fascia sinistra, all'altezza della trequarti offensiva. Reso inoffensivo da quella parte, il Napule non ha avuto la forza di trovare soluzioni alternative a quella più efficace. E il Pipita, irascibile di suo già nelle partite 'normali', covava l'esplosione. Due botti. Col primo si è limitato a sfogare la rabbia sul pallone, scaraventandolo in porta con una potenza assurda e ristabilendo una situazione di parità. Con il secondo ha praticamente escluso se stesso dalla competizione. Fine della stagione, fine dei sogni e anzi, ora, attenzione alla Roma e al rischio di dover andare in Champions passando dai play-off.

La morale della favola è semplice. Chi si gioca il tricolore in volata (breve o lunga) con la Juve, ha pochissime chance di tagliare il traguardo con la ruota davanti. E' storia.

Non inquadrati, i bagagli
Le milanesi, già. Due sconfitte simultanee, sebbene occorse a distanza di poche ore. Simmetriche per andamento - sconfitte subite in rimonta, dopo un rapido vantaggio guadagnato dal dischetto. E va bene. Simmetriche per pochezza di gioco, per l'evidente sbracamento di schemi e di voglie, per la tendenza allo spreco gratuito e trascurato. Le 'prodezze' dispensate dai Poli e dai Bertolacci, dai Santon e dai Miranda (sì, anche Miranda) fanno parte di un repertorio tutt'altro che inedito. Gli allenatori, forse, se ne andranno. Sicuramente se ne andrà (magari persino a breve) Mihajlović, che sta perdendo qualche scommessa; Mancini ha tutta l'aria di uno cui, in fondo, non dispiacerebbe far le valigie, ora che quello del 'terzo posto' è un obiettivo pressoché certamente fallito. Amen. Tutto sommato, c'è anche e persino di che accontentarsi. Rivedremo comunque giocatori in tenuta nerazzurra e rossonera doc, l'anno prossimo, sui campi europei. Per quanti mesi e per fare cosa, e soprattutto guidati da chi, è difficile indovinare.

mans

2 aprile 2016

L'onta


Dopo un'ora di gioco e di non entusiasmante spettacolo, el Clásico sembrava avviato verso il suo naturale e atteso epilogo. Inzuccando su corner, Piquet inneggiava alla libertà della Catalunya, riavvolgendo il Madrid nel suo spleen stagionale. 

In effetti, s'era giocato un primo tempo parecchio inconcludente, dall'una e dall'altra parte, ma soprattutto dall'una, quella blaugrana. Lenti palleggi e trequarti intasata, nessuno dei tre tenori in serata di grande vena; qualche tentativo del Real di ripartire in contropiede, ma con poca voglia di esporsi a sua volta. In fondo, veniva da pensare, al Barça un pari può anche star bene. Per la classifica, e perché martedì ci sarà una sfida di uguale intensità agonistica ma - al momento - di maggiore importanza. La Liga è in cassaforte o quasi, tanto vale non rischiare il fiato e le gambe.

Un primo tempo da Clásico di transizione, ravvivato dall'ovvio minuto di applausi per Cruijff, acceso dall'arbitro con qualche giallo sventolato sotto il naso dei soliti noti - i Ramos e i Suarez -, e gli unici davvero eccitati erano i 100.000 di Camp Nou. Veniva da pensare che, dopo tempo immemorabile, potesse finire zero a zero. Non capita dal 2002, si sa. E dunque, prima o poi, deve ricapitare.

E' Gareth Bale, ma indubbiamente ricorda la gif di John Travolta che
impazza sui social
Ma esistono solo Clásicos inolvidables, da parecchi anni, per obbligo e definizione. E perciò nel secondo tempo accade di tutto. Anzi, nell'ultima mezz'ora. Prima il pari - di prepotenza, da centravanti old style, alla Boninsegna - firmato da Benzema. Poi la sostituzione di Rakitic (in riserva?) con Arda Turan: mossa che spalanca al Real le porte della città. Zidane ha la faccia di uno che ci crede ancora. E infatti: due a uno, incornata di Bale. Gol. Annullato: inspiegabilmente, scandalosamente. Logico, al Bernabéu qualsiasi arbitro l'avrebbe convalidato; a Camp Nou vigono regole diverse. Le regole di Camp Nou e del Bernabéu sono diverse da quelle che in vigore negli altri stadi del mondo, e a qualsiasi squadra ospite, a Camp Nou o al Bernabéu, un gol così sarebbe stato annullato. Ma non basta. Passa un minuto e puntuale arriva l'espulsione (un classico del Clásico) di Sergio Ramos. Pensi che a quel punto e nonostante manchino dieci minuti e anche meno le cose torneranno nel loro solco, che i Blancos ricadranno nel loro spleen e che il finale sarà un altro glorioso trionfo della Catalunya. Già immagini i canti e le lacrime e le dediche. E invece no. Tutto il contrario. Cristiano, che durante la partita si era soprattutto esercitato nell'arte di dribblare se stesso, finalmente indovina un gesto di alto contenuto tecnico: stop a superare l'avversario e palla bassa, velenosa e difficile da prendere per uno bravo, anche per Bravo. 


Sicché, in dieci contro undici, in rimonta, il Real vince una partita che nessuno (escluso Zizou) riteneva potesse vincere. Un'onta, per il Barça, nella prima notte in cui il fondatore lo guardava giocare dalle nuvole. Un'onta e un campanello d'allarme. Da non sottovalutare. Gioco lento, motore ingolfato. Poca benzina, forse. Così, nel silenzio indispettito e surreale di Camp Nou, dopo il triplice fischio, qualcuno sente già da lontano il rumore dei cavalli del Cholo. Arriveranno fra qualche giorno e sarà una battaglia crudele.

mans