30 settembre 2014

I santoni e le loro idee

Cartoline di stagione: 7° turno 2014-15

Chi ama il beautiful game vive in questi anni un'epoca fortunata: può infatti assistere a un football bellissimo, come raramente si è dato, per intensità e numero di interpreti, nella sua storia. Non parlo ovviamente del calcio italiano, ormai arretrato e periferico, né del calcio dei "top players", che un tempo erano chiamati più semplicemente "campioni" (e ce n'erano anche più di oggi). Mi riferisco a pratiche di gioco che alcune squadre stanno mostrando e hanno mostrato in anni recenti: un'idea di gioco offensivo inverata in più di un XI. Andando à rebours, per esempio, nella stagione scorsa hanno giocato in modo splendido, spettacolare, squadre come il Liverpool di Rodgers e l'Atletico di Simeone; nel 2013 il Borussia di Klopp e il Bayern di Heynckes; nel 2012 l'Athletic di Bielsa e la Juventus di Conte; nel 2011 il Barcellona di Guardiola, per citare solo quelle di vertice. Il recente Mondiale in Brasile si è rivelato probabilmente il più bello di sempre, soprattutto nella prima fase, confermando che i selezionatori delle nazionali avevano recepito le tendenze dettate dalle maggiori squadre di club europee.

La cattedra prediletta da Bielsa nella sua aula marsigliese
Jonathan Wilson ha ascritto questa nuova, grande, stagione del football mondiale soprattutto all'esempio proposto, sin dagli anni 1990s (quelli bui dominati dal difensivismo muscolare e dall'abiura dei giocatori atipici), da due allenatori visionari - Marcelo Bielsa [vedi] e Louis van Gaal [vedi] - le cui idee hanno seminato un nuovo modo di proporre il gioco, più offensivo, più prolifico, raccolto da vari altri loro colleghi. Entrambi non sono stati degli innovatori assoluti, ma degli appassionati e colti interpreti degli assiomi del calcio totale che era stato ideologizzato da Rinus Michels negli anni 1970s, e che aveva avuto un poco conosciuto antecessore in Viktor Maslov [vedi] e poi due grandi interpreti come Valerij Lobanovs'kyj e Arrigo Sacchi. Non la faccio lunga, ma sottolineo solo che non si tratta di una questione di modulo (di 4-3-3 o di altre formule), ma di atteggiamento: giocare un calcio propositivo, dare la caccia alla palla, pressare alto, proporre un movimento continuo dei giocatori e una varietà di opzioni per chi gioca il pallone, giocare di prima, creare lo spazio con il movimento degli attaccanti centrali, etc.

La stagione che è cominciata da un paio di mesi propone Bielsa e Van Gaal alla guida di due squadre di vertice nei rispettivi campionati. Le ambizioni, la storia recente e gli acquisti spropositati del Manchester rendono la messa a punto del nuovo progetto di Re Aloysius [vedi] necessariamente più lenta e accidentata. El Loco, invece, lavora su una scala inferiore, che forse è quella che più gli si confà, alla fin fine: a Marsiglia si è posto alla guida di un gruppo di ragazzi che lo seguono con convinzione. E i risultati cominciano a vedersi, nonostante le frizioni dell'argentino di Rosario con la dirigenza dell'Olympique che gli aveva promesso qualche acquisto di qualità che non è mai arrivato (un po' la stessa storia andata in scena a Napoli tra De Laurentiis e Benitez). Dopo una partenza scoppiettante (3:3 a Bastia e 0:2 dal Montpellier) sono venute sei vittorie consecutive: tre fuori casa (Giungamp 1:0, Evian 3:1, Stade de Reims 5:0) e tre in casa (Nice 4:0, Stade Rennais 3:0 e Saint-Etienne 2:1). Certo, il Marseille deve ancora affrontare le maggiori inseguitrici (Bordeaux, Lille e Paris Saint-Germain) ma l'allure è impetuosa.

La cartolina del week end arriva infatti, dritta filata, da un rinnovato Vélodrome vibrante di passione sugli spalti - con echi "argentini" innestati nel ribollire mediterraneo della tifoseria - e illuminato dal gioco dell'XI guidato da Bielsa. Un gioco semplice, lineare, verticale, veloce, senza fronzoli, senza passaggi orizzontali, senza lanci lunghi, tutto di prima, in un movimento continuo di uomini e linee, che tradisce il frutto di un'intensa didattica bene assimilata da una rosa senza campioni ma non priva di giocatori di qualità, dai più noti Mandanda, Payet, Gignac e Ayew ai più giovani N'Koulou, Dja Djédjé, Imbula e Thauvin ... Tatticamente la squadra gioca con linee a 3, che mutano a 4 a seconda delle fasi di gioco, come detta il modulo prediletto da Bielsa. Difesa a 4 in fase di non possesso, da cui esce sempre in prima battuta sul portatore di palla il centrale N'Koulou. Centrocampo a 4 quando riparte l'azione con due esterni, Romao e Thauvin, che si allargano sulle linee laterali mentre il gioco è proposto in verticale da Imbula e dallo stesso N'Koulou. Attacco a 4 con Gignac centrale, Payet alle spalle e Ayew e Thauvin sulle fasce: ma punte mobili, con Gignac che arretra a dettare il triangolo con i mediani che salgono: domenica scorsa, due gol in fotocopia, di Imbula e Payet, infilatisi al centro nel risucchio prodotto da Gignac. Chi non ha ancora visto questo XI si sintonizzi al più presto: uno spettacolo. La squadra più bella del momento.

Primi piani nitidi e terze linee sfuocate
Un gioco simile lo predica da anni anche Zdeněk Zeman, il santone nostrano: 4-3-3 di base, movimento continuo, transizione veloce della palla in verticale, senza troppi lanci lunghi o tiki taka orizzontali, gioco di prima, triangolazioni in attacco, diagonali estreme in difesa. Un'idea di gioco - per nulla misteriosa: si chiama, pensa un po', "calcio totale" - che in Italia pochi comprendono e tutti sbeffeggiano. In settimana i sedicenti "esperti" e i cosiddetti "opinionisti" avevano inscenato un surreale dibattito sui media: se cioè il calcio di Zeman fosse ancora attuale. Il problema (per loro, non per lui e nemmeno per noi) è che "non sono attuali" gli addetti ai lavori italiani, la cui ignoranza del football che si gioca all'estero è ormai pari al livello modestissimo cui è ridotto l'unico calcio che essi guardano senza cognizione. Domenica pomeriggio, a San Siro, Zeman ha inflitto coi suoi giovani del Cagliari una lezione di gioco al calcio italiano, mostrando cosa significhi avere idee, allenare una squadra, fare didattica. L'avversario era blasonato ma ormai naufragato da un'epoca tramontata che però perdura nelle ataviche convinzioni di molti suoi protagonisti: non solo il modestissimo Walter Mazzarri, ma anche la società che investe su di lui e su giocatori male assemblati, l'ambiente che sopravvaluta come campioni dei mesti ronzini, etc. Da un lato un gioco di squadra - quello che si gioca stabilmente nelle coppe europee (dal cui proscenio i nostri club sono ormai scomparsi) -, dall'altro una trama affidata alle individualità, agli estri estemporanei, drammaticamente priva di idee e di conoscenze. Uno iato culturale di cui i protagonisti non sono nemmeno consapevoli, intenti come appaiono a invocare attenuanti: gli arbitraggi, il turn-over, la sfortuna. Magari fosse così: non saremmo qui a terra, con le nostre vergogne.

Azor

29 settembre 2014

Quanto conta la giocata?


All'interno di un partita, e quindi di un'intera stagione, l'importanza di una giocata è inversamente proporzionale alla qualità degli interpreti. In altre parole, se il campionato è scadente la giocata sposta quasi sempre in modo decisivo l'ago della bilancia. Roma-Verona era una partita bloccata. La Roma dominava, ma il Verona sullo 0:0 stava cominciando ad affacciarsi pericolosamente dalle parti di De Sanctis; Florenzi agguanta un pallone vagante al limite dell'area e lo scaraventa in rete. 1:0, partita quasi risolta. Il Verona reagisce subito e sfiora il pareggio, ma Destro si inventa un gol credendosi Maradona con Giuliani nel mirino e fa 2:0. Fine dei giochi. La Roma risolve la pratica e vola in testa alla classifica.

Florenzi esulta dopo aver portato in vantaggio la Roma sul Verona
Atalanta-Juventus era un'altra partita bloccata. La Juve aveva segnato nel primo tempo, ma l'Atalanta non aveva demeritato. All'inizio della ripresa l'arbitro fischia un rigore per i Bergamaschi. El Tanque va sul dischetto, Buffon si tuffa alla sua sinistra e para. Sul ribaltamento di fronte Tevez fa 2:0. Fine della partita: il gol di Morata vale per gli almanacchi. Il derby Genoa-Samp è una delle partite più brutte del calcio mondiale da quando esistono entrambi: il derby e il calcio mondiale intendo. Stavolta non è un'eccezione. Botte da orbi per un'ora e nemmeno un tiro in porta. Per vendere all'estero i diritti di una partita così ci vorrebbe il Berlusconi di Publitalia con un paio di cortigiane vestite da infermiera. Poi, dal nulla, Gabbiadini si inventa un tiraccio su punizione che sfila davanti a tutti e si insacca alla destra del portiere.

E veniamo alla Viola: partita irritante. Possesso palla sotto ritmo per un'ora condito da tre tiri in porta, un paio dei quali sparati in curva dagli attaccanti di entrambe le squadre. Poi Quagliarella si inventa un bel diagonale in area con la complicità di bostick Pasqual, che lo marcava a tre metri di distanza. 1:0 e palla al centro. Poco dopo entra Bernardeschi (un predestinato) e tira fuori dal cilindro una specialità che a Firenze non si vede da tre anni: il passaggio in verticale. I compagni, abituati al tiki-taka, stavano tornando in difesa certi che quel passaggio sarebbe finito nel nulla delle maglie granata. L'unico che ci ha creduto è lo stesso che aveva dettato quel passaggio, ovvero Babacar. Scatto sulla destra del portiere e gol a porta vuota. 1:1, fine della partita.

Dopo il pareggio odierno fra le mura amiche dell'Olimpico di Torino mi vengono in mente tre considerazioni. La prima: il campionato italiano è davvero uno spettacolo sempre più difficile da digerire per chi ha visto Maradona, Platini, Zico, Edinho e Antognoni e ciò non sarebbe un guaio se solo si vedesse all'orizzonte una qualche programmazione a medio e lungo termine. Del tipo ok, adesso guardatevi questa bruttura, ma fra cinque o dieci anni, quando i giovani nostrani si saranno fatti le ossa, avremo campioni lustri lustri da mostrare al mondo. Invece pare che la mediocrità sia una condizione a cui dovremo abituarci.

Babacar festeggia il gol dell'1-1 sotto il settore dei tifosi viola a Torino
La seconda considerazione: se in una squadra che fattura un quinto di Juve, Milan, Inter e un quarto della Roma mancano contemporaneamente Gomez, Rossi, Cuadrado e Pizarro allora pareggiare a Torino e aver incamerato sei punti in cinque partite è un mezzo miracolo.

La terza considerazione: è forse vero che i tifosi viola sono eredi dei Guelfi e dei Ghibellini ecc. (sempre la solita solfa per giustificare la totale mancanza di equilibrio nel valutare un ambito in cui ci crediamo grandi, ma siamo rimasti gli unici a crederlo), ma criticare un gruppo e un allenatore che in due anni hanno fallito il piazzamento in CL per due (chiamiamole) casualità sfiora la paranoia. Il giudizio su questa squadra non può prescindere né dalla tara degli assenti né da un'analisi più generale sul campionato italiano. Inutile criticare squadra e allenatore quando viviamo una fase storica in cui portare al di qua delle Alpi Higuaín e Gomez è un autentica impresa. A giocare in Italia non vuole venirci più nessuno di quelli forti. E da tifosi viola dovremmo saperlo bene visto che per due estati abbiamo corteggiato invano Santon. E mica ho detto Maldini. Quello che mi preoccupa di più è un certo clima di prostrazione, di scoramento attorno alla squadra; sembra sia scemato l'entusiasmo, ma forse è solo uno stato passeggero e alle prime vittorie tornerà a garrire al vento il labaro viola.

Cibali

22 settembre 2014

Le ladies di ferro


Va di moda, negli ultimi giorni, tirare in ballo Margaret Thatcher. Il segretario del più grande sindacato italiano vi paragona il Presidente del Consiglio il quale, bontà sua, risponde indignato, ma sotto sotto ha apprezzato l'accostamento perché la lady di ferro, come la chiamavano i sudditi di sua Maestà, è stata una donna sì controversa, ma circondata da un'aura mistica di efficienza e determinazione. Un'efficienza e una determinazione che si sono rivelate in tutta la loro potenza nel combattere la violenza negli stadi, si dice. Quante volte abbiamo sentito questo ritornello? Se avessimo anche noi una Thatcher ... Solo così potremmo applicare il modello inglese e debellare il cancro degli ultras dagli stadi italiani. In queste ormai ataviche convinzioni vi sono due errori grossolani che ieri, vedendo la Viola impegnata a Bergamo, sono apparsi evidenti come una maglia a strisce bianconere in curva Fiesole. Il primo errore è che per applicare il modello inglese ci vogliono gli inglesi e in Italia, a parte qualche turista, ce ne sono pochini. Il secondo è che lady Margaret non è la persona che ha dato la svolta al sistema calcio inglese. Allora, facciamo un paio di considerazioni sperando una volta per tutte di chiarire l'ormai insopportabile malinteso. La svolta del calcio inglese è stata determinata soprattutto da una tragedia (l'ennesima fino ad allora). Era il 15 aprile 1989, Margaret Thatcher sarebbe andata in pensione l'anno dopo. A Hillsborough (Sheffield) si giocava la semifinale di FA Cup fra Liverpool e Nottingham Forrest. Prima dell'inizio della gara si scatena il panico nella West Stand in quanto le autorità aprono il gate C permettendo l'afflusso di un'enorme massa di persone in un settore che ne poteva contenere solo 2.000. La calca spinge centinaia di persone sul campo, ma molte restano intrappolate in curva a causa delle protezioni costruite proprio su decreto del governo, ovvero dell'iron lady, in seguito ai fatti dell'Heysel del 1985. Il risultato è spaventoso: 96 morti e oltre 200 feriti.

Il Liberty Stadium dello Swansea
È da questo evento catastrofico che gli inglesi decidono di farla finita e hanno un'idea banale e geniale al tempo stesso: e se trasformassimo gli stadi in luoghi dove vedere una partita è "anche" piacevole? Detto fatto. In vent'anni anni tutte le società si fanno lo stadio. Alcuni sono veri e propri gioielli di architettura con poltroncine più comode di quelle che ho io in salotto.

La gente, quella che ama davvero il calcio, torna allo stadio e i violenti piano piano vengono sostituiti dalle persone "normali". Certo il lato repressivo esiste ed è necessario, ma non sono le celle di detenzione presenti negli stadi né gli steward a costituire un deterrente per i criminali con la sciarpa al collo. Il calcio inglese ha iniziato a cambiare quando la Thatcher si stava godendo la pensione. Gli stadi sono la chiave di tutto; certo è necessario lavorare su  un complesso di educazione civica, lavoro paziente nelle scuole, taglio netto dei legami fra società e tifo organizzato, meno tatuaggi sul corpo dei calciatori assurti a simbolo di uno stupido machismo che con lo sport non c'entra nulla, ecc. Gli stadi belli e comodi portano soldi alle società, gente allo stadio e creano lo spettacolo. Vi è mai capitato di saltellare col telecomando da una partita qualsiasi del campionato inglese a una qualsiasi del nostro? Ecco, allora avete capito quello che intendo.

Lo stadio Atleti Azzurri d'Italia di Bergamo, settore ospiti
Lo stadio dell'Atalanta (gran bella squadra quest'anno e ieri sconfitta immeritatamente) è un residuo dell'era pre-industriale; un cimelio di archeologia pre-moderna; un luogo dove tutto si può fare tranne vedere una partita di calcio nell'anno di grazia 2014. Vedendo la partita ieri mi sono spesso soffermato sugli spalti dell'"Atleti Azzurri d'Italia" e vi ho visto, a parte la tribuna, una maggioranza di energumeni in piedi dall'inizio alla fine, recinzioni che non ha nemmeno lo zoo di Pistoia e un campo sul quale avrebbe più volentieri pattinato Carolina Kostner.

Siamo dunque distanti non solo dal risolvere, ma dall'affrontare il problema nella sua dimensione reale. Mercoledì scorso abbiamo assistito all'ennesima vergogna in diretta tv durante la partita di Champions' League fra Roma e CSKA di Mosca. Il neo presidente federale manifesta il suo razzismo idiota e i giornali lo etichettano come "una caduta di stile", Genni a'carogna decide se si può giocare o meno la finale di Coppa Italia. A noi non serve Margaret Thatcher. Ci basterebbe anche un piede solo nel terzo millennio.

Cibali

Frank, "el Cuchu" e la nemesi di Marassi

Cartoline di stagione: 6° turno 2014-15

"Frank, sei una vecchia ciabatta, non so cosa farmene di te. Adesso ho Fabregas". Non avrà certo detto questo José Mourinho a Frankie Lampard qualche mese fa, ma c'è qualcuno disposto a scommettere un penny sul fatto che non l'abbia pensato (vedi foto)? E ieri impagabile era l'espressione del portoghese, inquadrato dopo che la vecchia ciabatta, subentrata da poco, aveva scaraventato in rete il pallone di un pareggio che i Citizens strameritavano. Espressione incredula da un lato, scocciata dall'altro. Il vecchio dipendente gli sottraeva la ribalta, impedendogli di vincere more solito una partita di vertice senza giocare a calcio. E il buon Frank è poi andato a raccogliere l'applauso interminabile della South Stand, dov'erano concentrati i supporters ospiti. E' una situazione che capita di rado. Del Chelsea, Lampard è di diritto (e di fatto) una leggenda, e i numeri parlano chiaro: 648 presenze nel club (in tutte le competizioni) e 211 gol. E - si sa - non è un centravanti. Tre titoli nazionali, otto coppe britanniche, una Champions League, un'Europa League. Tutto, o quasi. E' sicuro: la storia di oggi (il gol e gli applausi di tutti) si scolpisce nella infinita storia del calcio inglese; che è forse l'unico a poterne produrre di simili. Su Mou, sul suo atteggiamento nel post-partita [vedi], sul (non) gioco del Chelsea (nonostante l'immensa qualità di cui dispone e che si è vista una sola volta durante il match), stendo un velo pietoso. Vincerà per inerzia molti titoli, quest'anno (cosa che personalmente non mi auguro), ma aumenteranno - nei suoi confronti - le antipatie e il sarcasmo.

E' stato comunque, in Inghilterra, un grande week-end. Bolle di sapone a Boleyn Ground [card] prima della partita - sabato pomeriggio - mentre si alza - appunto - "I’m forever blowing bubbles", inno degli Hammers. Match di cartello, West Ham-Liverpool. Si diceva che i supporters locali fossero stanchi del cattivo gioco offerto dagli uomini di Allardyce negli ultimi due anni; sì, risultati decenti, ma divertimento scarso. Bene, in questa stagione le cose sembra stiano cambiando. I Reds sono annichiliti dai primi dieci minuti di pressing e velocità dei londinesi; sconcertati, incapaci di articolare un discorso di football ancorché minimo. Sterling ignora Balotelli; Gerrard pare un lento tram che sta arrivando finalmente al capolinea; i centrali sono - a dir poco - statuari. Dello spettacolare XI ammirato un anno fa non è rimasto nulla. Rodgers deve ricominciare tutto daccapo: tre sconfitte su cinque partite in Premier sono quasi una sentenza. Peccato.

Jamie Vardie: una giornata particolare
Domenica pomeriggio, a Leicester, eccoli in campo tutti insieme: Falcao e Van Persie, Rooney e Di Maria. La batteria dei galli da combattimento di Luigi Van Gaal. I quattro confezionano due marcature di altissimo pregio, e a meno di mezz'ora dalla fine lo United è avanti di due gol. Riesce a incassarne quattro, e a perdere la partita. Il velo pietoso, stavolta, va steso sul reparto difensivo dei Red Devils: semplicemente osceno. Anche quelli che erano a Filbert Way ricorderanno a lungo questa partita, e la prestazione sopra le righe di due pedatori che più lontani (in tutto) non potrebbero essere: Esteban Cambiasso (ecco dov'era finito!) e soprattutto Jamie Vardie, ormai ventisettenne, nato a Sheffield, e arrivato ai Foxies solo due anni fa, dopo una vita trascorsa sui campi delle divisioni inferiori. El Cuchu ha ciabattato da par suo il gol del tre a tre, l'altro ha corso indemoniato per novanta minuti, segnando, servendo assist e quant'altro; the game of his life, senza dubbio.

Anche altrove si è giocato a pallone. Bisogna ammettere che, quando i suoi satanassi sono in vena, il Real è davvero un luna-park. Otto reti al Riazor, mai così tanti in trasferta nella sua storia in Liga, perle meravigliose offerte da Cristiano, da James, da Bale. Carletto ha il problema di abituare Kroos (uno che era nato trequartista) a fare il centromediano, e deve trovare il modo di far rendere James al meglio per la squadra, avendo il colombiano passo ben diverso da quello di Ángel Di Maria. Sicuramente, essendo tosto e testardo, ci riuscirà, in fondo ha dovuto risolvere problemi assai più complicati nei suoi ormai lunghi anni in panca ...

Il sabato si era concluso al Meazza. Strapieno di spettatori paganti e non abbonati, venuti per vedere Milan-Juventus. Si sperava in un match spettacolare ed equilibrato. Si è vista la classica partita di Serie A, un lento muoversi di uomini e di idee sulla scacchiera; partita - come si suol dire - tatticamente bloccata, e piena di falli (appunto) tattici. A bassissimo tasso di godimento per il pubblico - anche quello non abbonato e non pagante, già. Hanno vinto i bianconeri, secondo logica: superiori non tatticamente, ma certamente nella qualità complessiva dei singoli e dominanti sotto l'aspetto fisico. Magnifica la doppia giocata di Tevez in occasione del gol. Impressione volante: quando (e se) Allegri (uomo e allenatore per nulla geniale, anzi) scioglierà le briglie a Pogba, la Juve farà il salto di qualità che deve fare, forse anche in Europa; il suo reparto di mezzo, a ben guardare (con e senza ma soprattutto - in prospettiva - senza Pirlo), è ben assortito e nulla ha da invidiare a quelli dei grandi club stranieri.

La Serie A ha poi esaurito il suo programma tra il primo, il secondo, il terzo pomeriggio e la prima serata di domenica. Si è visto davvero poco. Da ricordare, tuttavia, la sconfitta della Lazio a Marassi, maturata sul finale di partita: gli sprechi dei biancocelesti nel primo tempo sono inauditi - almeno dieci occasioni limpide, ben riasssunte da un inciampo sulla propria corsa di Felipe Anderson, solo in area di rigore. Si sa come vanno le cose. Nemesi puntuale. "Ha prevalso il fattore imponderabile", deve aver pensato Claudius Lotitus.

Mans

18 settembre 2014

Calcio italiano in crisi?

Fettine di coppa: primo turno 2014/2015

17 settembre 2014
Edificante spettacolo calcistico all'Olimpico
Calcio italiano in crisi? Macché. Gli ultras - che ne sono i principali protagonisti - risultano sempre in grande spolvero. A Roma volano coltelli e lacrimogeni, le immagini del post-non-partita inquadrano ingressi di pronto-soccorso, camionette blindate, gente che si nasconde a leccarsi le ferite o a preparare contrassalti. Un migliaio di famigerati supporters del Zeska arriva nella capitale, ovviamente con intenti poco turistici e per nulla pacifici, sanno che troveranno pane per i loro denti e in ciò sta per loro il bello della trasferta. Così, dice la Digos e riprendono le cronache, "sarebbero stati i russi, non i romanisti, a cercare l'ingaggio, con un paio di agguati ben organizzati. Uno sul Lungotevere, nel luogo di ritrovo abituale del tifo giallorosso; l'altro, fortunatamente sventato dalle forze dell'ordine, nel villaggio dedicato all'intrattenimento di famiglie e bambini. L'accoltellamento nei pressi di Ponte Duca d'Aosta, dunque, sarebbe la reazione di un romanista, probabilmente vistosi sopraffatto dalla furia dei russi, che più di un testimone dei fatti descrive, appunto, come cattivi, organizzati e armati di tutto punto, perfino le donne" [vedi]. Sarà vero? Mah, alle versioni 'ufficiali' è sempre bene non credere troppo. 

Calcio italiano in crisi? Primo turno di CL, due partite, due vittorie, sette gol segnati, uno (inutile) subito. Sei punti in classifica; le quattro spagnole, per dire, ne hanno messi insieme sette; le tedesche idem; le inglesi quattro (ahiahi, il pareggio interno del Chelsea ...). Partenza sprint. Anzi, riscaldamento sprint. Già. Purtroppo, il torneo deve ancora iniziare: quello della Roma ovviamente, perché le partite 'vere' sono quelle da giocare contro Bayern e City; quello della Juve inaspettatamente, perché la sconfitta dei Colchoneros al Pireo complica (e parecchio) il girone. La cartolina arriva dritta dritta dal Georgios Karaiskákis di Atene. Qui, martedì sera, i campioni di Spagna e vicecampioni d'Europa hanno lasciato le penne. Simeone era ancora nella gabbia - è sempre squalificato, vai a sapere; fra qualche mercoledì, i bianconeri andranno a Madrid. Sarà, praticamente, uno spareggio.

La Roma, dal canto suo, meriterebbe di stare in cronaca solo per ragionamenti sportivi. E' una bella squadra, opera con intelligenza sul mercato, ha un allenatore in gamba, produce gioco spettacolare e veloce. Ma - attenzione - l'esordio col Zeska è da prendere con le molle. Troppe voragini nel sistema difensivo dei russi. Troppo facili i gol. Arrigo, nel post-non-partita, ha subito e giustamente smorzato i toni entusiastici: niente pressing, niente raddoppi, niente velocità, il calcio dei russi non è quello che si gioca oggi in Europa, il calcio che si gioca oggi in Europa è quello del Bayern e del City, e vedremo come sapranno cavarsela i nostri prodi contro di essi. Garcia, dal canto suo e naturalmente, ha tutto l'interesse a lasciar credere che il Zeska non sia la squadra più debole del girone. A meno che lui non ritenga la Roma più debole del Zeska e delle altre due: si tratterebbe in tal caso di un girone a cinque ma nessuno - al momento - saprebbe dire quale sia la quinta squadra. Insomma: chiacchiere.

Stasera intanto si gioca per la coppa detta 'Europa League', quella che più si addice al valore complessivo del nostro football. Qui, con un po' di fortuna, potremo presentare, a febbraio, cinque/sei squadre al via dei sedicesimi di finale. Vedremo ...

Mans

15 settembre 2014

I ritorni

Cartoline di stagione: 5° turno 2014-15

Messi e Neymar: potrebbe essere l'anno della grande intesa
E' stato il week-end dei ritorni. Sabato sera, a Camp Nou, è forse ricominciato l'infinito cammino del Barça. In pochi minuti, sullo scorcio di gara, la Pulce e O Ney - diversamente protagonisti in Brasile - hanno annichilito, con giocate inarrivabili, il forte Bilbao (sì, quello che aveva spento o quasi sul nascere stagione e ambizioni napoletane). Messi, in particolare, sembra tornato quello che in Brasile corricchiava lento e depresso sul prato in attesa d'essere riposseduto da Eupalla. Eccolo di nuovo, brillante, rapidissimo sul breve, capace di 'vedere' cose che lo spettatore capisce quando sono state già realizzate; e il brasiliano pare adesso un campione maturo, probabilmente fortificato dall'enorme sofferenza del mondiale e dalle responsabilità che ha dovuto portare sul groppone, alla sua ancora giovane età. Manca ancora il terzo, il dentone uruguagio. Immaginare i tre insieme è da capogiro: ancora qualche settimana, e potremo soddisfare il nostro inguaribile voyeurismo. Il Barça, intanto, ha iniziato bene la stagione: punteggio pieno dopo tre partite, Real già distante sei punti. Real che perde il  Derbi madrileño al Bernabéu; Florentino contestato, Carletto innervosito. Simeone, dalla gabbia, ha ancora una volta magistralmente guidato i suoi, operando i cambi giusti al momento giusto e mostrando di non essere in quest'epoca, e nel suo mestiere, secondo a nessuno. Anzi.

Meno 'grande', certamente, la prova dello United a Old Trafford, anche per la modestia dell'avversario. E' tuttavia la prima vittoria di Van Gaal, mentre il suo roster lentamente si viene completando. La Premier League è lunga ed estenuante, e vive fasi di intensità (e vicinanza di partite) da rendere potenzialmente irrisori i sette punti di vantaggio di cui gode il Chelsea - indubbiamente favorito dal calendario, almeno per ora. A Manchester possono tuttavia iniziare a progettare un rapido ritorno al vertice, dopo la stagione dell'improvvisa mediocrità.

Nel nostro 'malinconico' campionato maggiore, c'è da registrare una giornata forse statisticamente senza precedenti - qualcuno potrebbe indagare. Le due ex grandi milanesi hanno messo a segno, complessivamente, dodici gol. Vittime le simpatiche squadre emiliane, Sassuolo e Parma. A Parma, dopo un bel primo tempo del Milan, si è visto un secondo tempo osceno. Una fiera degli errori e degli orrori indimenticabile: protagonista della comica finale è Diego López, ex portiere dei Blancos nell'epoca del tramonto di Casillas, spacciato per uno dei migliori portieri del continente. Il buon Diego non ha parato uno solo dei tiri indirizzati dai parmensi nello specchio della sua porta: tre tiri, tre gol. Il quarto è di De Sciglio, un retropassaggio ordinario anzichenò. Nel 'tentativo' di controllarlo, Diego si stira e cade (foto), e il Parma segna così il quarto gol. Questo, signori, non è calcio; è Serie A.
Ciò nonostante, il Milan è primo in classifica.
Durerà poco, ma è a suo modo anche questo un ritorno.

Mans

Cominciamo (forse) a seguir virtute e canoscenza


Quando al minuto 57 il massaggiatore Fagorzi ha chiamato Bernardeschi dal riscaldamento, tutti allo stadio abbiamo pensato che a fargli spazio sarebbe stato Babacar. E invece dalla lavagna luminosa, alzata dalla bella Laura Paoletti, è uscito il numero 33: Mario Gomez. Un attimo e un mix di incredulità, stizza e delusione, si è impadronito dello stadio Artemio Franchi di Campo di Marte. Vincenzo Montella ha tolto il top player per far entrare uno che fino a tre mesi fa vestiva la casacca del Crotone.

E’ matto il Vincenzino da Pomigliano d’Arco? No, è coerente.

Vincenzo Montella, alla terza stagione sulla panchina viola
Il sistema calcio italico si è dotato di un organigramma nuovo di zecca, ovvero stantio come un pacchetto di fette biscottate lasciate aperte per un mese. In mezzo a una selva di proclami, indignazione e grida azzeccagarbugliesche, il nostro calcio è esattamente dove lo avevamo lasciato il 24 giugno scorso, a Natal, schiantato dall'irresistibile Uruguay del vampiro Suarez e del maestro Washington Tabarez. Forse Conte riuscirà a resuscitare la nostra nazionale, forse Tavecchio riuscirà a pronunciare due frasi consecutive senza sbatterci in faccia il suo machismo razzista. Di fatto il punto vero della questione, di cui avevamo parlato ampiamente su Eupallog durante la manifestazione brasiliana, non è stato affrontato. Il nostro calcio non ha bisogno di controlli alle frontiere né di vivai milionari. Il movimento sportivo più importante del Paese ha bisogno, secondo chi scrive, di due cose: 1. stadi che appartengano alle società e (possibilmente) al terzo millennio; 2. gente che sa insegnare calcio ai bambini e, quando è il caso, fabbricare il talento modellandolo, indirizzandolo, educandolo. Certo, se poi dovesse anche crescere la nostra cultura sportiva sarebbe magnifico, ma mi pare sia un fine e non il mezzo. A Firenze si sono abbattute le barriere su tutto il segmento di tribuna e, nonostante la visuale non sia sempre ottimale, quel settore  è sempre pieno, soprattutto di padri e figli (non ce ne voglia Turgenev).

A Firenze Montella non ha esitato a togliere un giocatore che ha vinto tutto, che ha segnato in tutti gli stadi del mondo, per far entrare un ragazzo nato nel febbraio del 1994 e affiancarlo a uno che in campo già c’era e che all’anagrafe risulta nato il 17 marzo 1993.

La Viola oggi non ha vinto. Il calcio italiano forse sì.

Cibali

12 settembre 2014

Arbiter, arbitrator seu amicabilis compositor

Un paio di settimane senza Serie A sono ideali per una riflessione a freddo su arbitri e arbitraggi. Giocatori, allenatori, dirigenti, moviolisti e tifosi sono travolti da questi ultimi in un flusso continuo che dura nove mesi, nel quale se ne dicono di enormi e di sesquipedali senza ritegno e senza vergogna - un genere che su Eupallog non pratichiamo da sempre, mica per snobberia ma perché noiosissimo. Preferiamo parlare di arbitri, anche se il tema non è, come sul dirsi, le plus amusant. Ma tant'è.

Come tutti, gli arbitri sbagliano, possono comportarsi in mala fede, farsi condizionare dai potenti, ed essere corruttibili (e probabilmente taluni - ma questo è davvero difficile da appurare - sono anche "cornuti", come si gridava un tempo dagli spalti). La storia della pedata è ricca di arbitri che hanno pesantemente condizionato partite e risultati: gli Azzurri di Pozzo, per esempio, furono certamente "aiutati" sulla strada della finale mondiale alla quale presenziò il Ducione nel 1934; arbitri sensibili alle lusinghe "casalinghe" si appalesarono in vari altri mondiali, da quelli cileni a quelli nippo-coreani, per ricordare episodi ben noti a noi italiani. La finale del 1966 fu determinata a favore degli inglesi da un guardalinee (ma arbitro) azero, che poi ottenne un apposito riconoscimento nientepopodimeno che da Her Majesty The Queen [vedi]. E numerosi - in giro per il mondo - sono i casi di arbitri sanzionati per corruzione o allontanati per la clamorosità delle malefatte.

Il consenso
Nessuno ama ricordarlo, ma probabilmente sono stati - e sono - però più numerosi i dirigenti, gli allenatori e i giocatori che hanno venduto o concordato i risultati delle partite. Le ricorrenti e varie "Calciopoli" sembrerebbero confermarlo, perlomeno per l'Italia.

All'estero gli arbitri italiani sono invece considerati tra i migliori al mondo per organizzazione e scuola. Non a caso sono spesso chiamati ad arbitrare le finali delle competizioni internazionali. In tali occasioni scatta quasi sempre un divertente tormentone: l'orgoglio fa gonfiare il petto a molti opinionisti e connazionali. Gli stessi che appena una settimana prima o la seguente non esitano a gonfiare le proprie giugulari contro i medesimi fischietti, accusandoli dei peggiori misfatti se la propria squadra ne è stata "vittima" in campionato. Gli applausi del "Franchi" di Firenze a Howard Webb nel prepartita del ritorno del quarto di Europa Legue 2014 della Fiorentina contro la Juventus non sono altro che la controfaccia del nostro provincialismo.

Il fatto è che all'estero le nostre giacchette psichedeliche arbitrano spesso meglio che in casa. Per un semplice motivo: si adeguano a un contesto che non vede nell'arbitro un protagonista ma solo un ufficiale ("official" è infatti uno dei termini con cui il "referee" è indicato in Inghilterra) che deve servire il gioco. Nel nostro campionato, intossicato dalla cultura ultrà ed erede delle secolari lotte di fazione, gli arbitri invece sono ritenuti gli artefici dei risultati.

Lo sconcerto
Il conio della felice espressione "sudditanza psicologica" - un'ammissione, va ricordato, sfuggita al capo (veneziano) della Can, Giorgio Bertotto, all'indomani di un Venezia-Inter 2:3 del 16 aprile 1967 arbitrato da Antonio Sbardella ("Purtroppo gli arbitri soffrono di una sorta di sudditanza psicologica nei confronti delle grandi società") - è certamente motivato da pratiche confermate dallo scudetto del Verona nell'unica stagione in cui fu adottato il sorteggio integrale per le designazioni. Per reazione gli arbitri italiani hanno ormai adottato un habitus di suscettibilità.

Chi scrive ritiene che la media attuale dei nostri arbitri sia tecnicamente modesta e, soprattutto, caratterialmente inadeguata. Certo, i nostri ufficiali di gioco non sono aiutati dalle altre componenti. L'immagine dei capannelli di giocatori inferociti è tristemente ricorrente ad ogni partita. Moltissimi giocatori li vaffanculeggiano platealmente, dopo avere spesso simulato le più terribili menomazioni. Le panchine tracimano in campo ad ogni fischio contrario. I cori degli ultras e dei loro corifei sono squallidi. Gli ex colleghi che assegnano i voti in pagella in tv regolano palesemente vecchi conti in sospeso e rancori e invidie mal dissumulate. Il piagnisteo degli allenatori è il corollario di ogni fine partita. Le dichiarazioni dei dirigenti sono spesso irresponsabili. E gli urlatori televisivi travestiti da giornalisti completano la gazzarra. Che poi tracima in rete, nei bar e nelle strade per infiniti giorni in un grande blob che pasce per nove mesi gran parte dei tifosi italiani. Al punto che viene da dubitare che costoro amino davvero il gioco del calcio o non si accontentino piuttosto di un simulacro (baudrillardamente, più che sabatinianamente, inteso - ben inteso!).

Torino - Inter di domenica 31 agosto scorso offre qualche spunto interessante, a proposito di crisi del calcio italiano. Parliamo di Walter Mazzarri, Daniele Doveri e Nemanja Vidic. Il primo ha ricominciato subito, alla prima partita di campionato, la litania dei torti arbitrali per cercare di mascherare la pochezza di risultati del suo lavoro all'Inter da più di un anno: la squadra gioca un calcio avvilente, povero di idee e di occasioni, tristemente votato al celibato. Meglio allora scaricare sull'arbitraggio ogni responsabilità. Ma possono credergli ormai solo i "nesci", come diceva il Maestro.

Lo sconforto
31 agosto 2014, Stadio Olimpico, Torino
Nemanja Vidic ha invece un'esperienza internazionale che il signor Doveri, per quanto appartenente alla sezione 1 della Città Eterna, nemmeno si sogna. Lo ha pertanto applaudito, come era uso fare talora in Premier, per manifestare il suo apprezzamento per una sanzione che riteneva fischiata a suo favore, mentre in realtà l'arbitro era orientato in senso contrario. Apriti cielo. Il permaloso Doveri ha ritenuto che l'applauso significasse un'azione di scherno, come sono effettivamente adusi svariati giocatori della nostrale Serie A: reazione pavloviana. Commento del guerriero serbo: "è stato scioccante. Devo capire come gestiscono qui i cartellini, è diverso dall'Inghilterra". La distinzione geografica è lapalissiana, ma il confronto richiama il problema dell'"alterità culturale": occorrono, cioè mediazioni. Difficile però che queste possano venire da una categoria come quella degli arbitri italiani capace di adontarsi per un nonnulla e di reagire spropositatamente per ogni presunta "lesione all'onore": un costume che, ci insegnano gli antropologi, caratterizzerebbe da sempre civiltà e popolazioni del Mediterraneo rispetto a quelle dei Mari del Nord.

Nondimeno, se l'errore tecnico è comprensibile - e non esiste tecnologia che lo possa evitare in assoluto, anche perché spesso la "verità" svela la sua dimensione "pirandelliana" - e, al netto dei furori di parte, giustificabile, lo sono assai meno la suscettibilità e la presunzione delle nostre giacchette. E' soprattutto su questo punto che, a mio avviso, i nostri arbitri appaiono non all'altezza del proprio ruolo: dovrebbero essere dei mediatori sereni (come ricorda la vecchia formula dei giuristi medievali "Arbiter, arbitrator seu amicabilis compositor"), non dei caratteristi umorali come coloro che li giudicano.

Azor

1 settembre 2014

Il malinconico catino

Cartoline di stagione: 4° turno 2014-15

Sergio Ramos è implacabile nelle aree altrui (meno nella propria)
I madridisti sono contenti per il gol e anche per le loro nuove divise
Capita, non di rado, che i Blancos escano da Anoeta con le ossa rotte. Da quelle parti, li massacrano volentieri; e la soddisfazione di farlo in clamorosa rimonta dev'essere impagabile. Specie se il Madrid indossa un'inedita, inspiegabile, orribile maglia color fucsia hollywood. Anzi, ridicola. E ridicoli sono parsi i quattro gol incassati da Casillas, che ormai non vede più la boccia; dev'essere anche un po' sfortunato, oltre che declinante. Particolare non da poco, e che Carletto avrà sicuramente annotato, i baschi hanno infilato i loro quattro palloni da dentro l'area di porta, spazio nel quale non dovrebbe essere così semplice accedere. Accade ormai di frequente, e non solo al Real. Ripromettiamoci inoltre di contare, quest'anno, le reti scaturite da azioni di corner e a seguito di schemi mutuati dal basket. Il pollame brasiliano del mondiale ha spalancato nuovi orizzonti ai ladri di galline ...

Eccolo qua. Inconfondibile.
Se la cartolina principale arriva dunque dall'arena di San Sebastian, un'immaginetta malinconica giunge dal Meazza. Prima di campionato, è sempre un'emozione. Gli stadi dovrebbero riempirsi. Fino a pochi anni fa, San Siro andava esaurito in abbonamento. Ieri, nel tardo pomeriggio, le gradinate erano semideserte. C'era Milan-Lazio, una classica; teoricamente, uno scontro diretto per posizioni di immediato rincalzo al vertice. Tre punti importanti. Sulla panca rossonera, emozionato ed elegante, ma con lo sguardo tipico di chi non ha la minima voglia di perdere le partite, Pippo Inzaghi. La gente è andata allo stadio solo per lui, che non gioca più. E dedicati a lui, ultimo simbolo di un'epopea perduta, erano i cori innalzati dalla curva sud e che si perdevano, con surreale effetto di rimbombo, nel malinconico catino.

Mans