16 giugno 2014

Wilson, Arroyo e Leo

Cartões Postais do Brasil 2014


Tre volte, nel primo tempo, Wilson Palacios è stramazzato al suolo. Pedatore di stazza, centrocampista abituato a dure battaglie sui campi periferici della Premier League (Birmingham, Wigan e ora Stoke City, con una parentesi al Tottenham), Wilson era molto carico, non gli era piaciuto il documentario di Canal Plus. Miserables? Wilson ha provato a scassinare i garretti dei centrocampisti di Francia, ma la barella è entrata tre volte in campo per lui, nel corso del primo tempo; botte, storte, allungamenti muscolari. Ha resistito a tutto, ha calpestato (venendone sgambettato) Pogba, e poi - su un pallone alto - ha perso il tempo dello stacco e, in ritardo sullo juventino, non ha potuto che arrivargli addosso con la delicatezza di un TIR. Rigore, secondo giallo, partita finita. Che dovesse uscire era scritto, perlomeno lo ha fatto sulle sue gambe. Honduras in dieci, e l'overture dei francesi nel loro gironcino di velluto non è stata nemmeno un allenamento.


Michael Antonio Arroyo Mina è un centrocampista del Club de Fútbol Atlante (Cancún, México), ed è naturalmente abituato a scosse di gioco meno violente di quelle che conosce chi tira pedate ad alto livello sui campi d'Europa. Perciò, quando al minuto 92:15 di Ecuador-Svizzera la sfera gli arriva sui piedi, al limite dell'area ma dentro l'area, in posizione centrale e con la visuale sgombra, i suoi riflessi sembrano appannati. Dovrebbe controllare e piazzare facile in rete, ma cincischia. Sono frazioni di secondo; sufficienti perché qualcuno in maglia rossa vada al contrasto, eluda il suo dribbling e faccia partire l'azione di contropiede. Al minuto 92:36 il pallone finisce alle spalle di Alexander Dominguez, portiere della Liga Deportiva Universitaria de Quito. Due a uno per gli elvetici, tra le macchie rosse e quelle gialle che coloravano l'Estadio Mané Garrincha di Brasilia, quelle rosse sono ora più vivaci.



Lionel Messi è una delle stelle più luminose del calcio contemporaneo. Tutti, da lui, si aspettano invenzioni meravigliose e abbaglianti. Da un po', tuttavia, emanava luce fioca, triste, lontana. Sembrava si stesse spegnendo. Argentina-Bosnia: intorno al ventesimo del secondo tempo, Messi torna ad essere se stesso. Infila sul palo basso, fuori della portata di qualsiasi portiere, un pallone che aveva lavorato con la rapidità e la precisione che erano normali per lui sino a poco tempo fa. Fino a quel momento, Leo sembrava una specie di Ortega, tutto dribbling velleitari ed esasperanti, palloni malgiocati, calci di punizione alti di decine di metri, un elemento di disordine nell'economia di una (presunta e possibile) grande squadra. Chissà se quell'improvviso ricongiungimento gli ha davvero consentito di fare pace con le proprie ombre, di allontanare i fantasmi e la paura, e di sentire meno stretto e paralizzante il giro della fascia di capitano che gli adorna il braccio sinistro.

Mans