2 gennaio 2014

Un paese che ha smesso di amare il suo calcio

Cartoline di stagione: 22° turno 2013-14

La prima cartolina dell'anno arriva dallo Stadio "Giuseppe Meazza" di Milano. Chiuso e deserto dal 22 dicembre. Specchio di un paese che vive delle glorie del proprio passato ed è ormai paralizzato da un viluppo inestricabile di privilegi che inibiscono chi vorrebbe provare a meritarsi in qualche modo le eredità dei nostri padri. Parlo di politica, ovviamente. Calcistica.

Lo Stadio "Giuseppe Meazza" di Milano, chiuso per ferie
Come è noto, i club italiani vivono da almeno un decennio una progressiva crisi economica - con bilanci perennemente in deficit e flessione dei fatturati per incapacità di generare ricavi che non derivino dai diritti televisivi - che ne ha allargato la distanza rispetto alle principali concorrenti europee. Nel 2013 la Juventus ha fatturato 275 milioni (con un deficit di 16) mentre il Bayern ne ha fatturati 432 (con un utile di 14); l'Inter ha fatturato 176 milioni (con un deficit di 74) mentre il Real Madrid ne ha fatturati 520 (con 36 di profitto); il Milan (nel 2012) 276 milioni (con 7 di deficit) mentre il Manchester United 434 (con 20 di utili). Che un imprenditore come Erick Thohir abbia deciso di rilevare l'Inter è il segno di quanto le nostre squadre siano ormai degli affari a prezzi d'occasione. Occorrerebbe tenere sempre presenti questi dati quando si leggono i titoloni sul calcio-mercato e si registrano le precoci eliminazioni dalla Champions. E' possibile invertire la tendenza? Sì, come mostrano squadre meglio gestite che hanno fatturati inferiori ma risultati di gestione positivi. Quale la via? Vendere bene e acquistare meglio (esempio del Napoli), ingaggi più bassi (Fiorentina), tagli ai costi di produzione (Udinese) e incremento del fatturato commerciale (Roma). Che non significa solo sponsor sui tabelloni, vendita di magliette o incassi allo stadio, ma sfruttamento del marchio (esempio: il Manchester lo appone anche sulle patatine malesi "Master Potato") e valore aggiunto.

Quest'ultimo, però, ha una componente immateriale, squisitamente estetica: gli stadi pieni e senza violenze, l'intensità di gioco e l'agonismo della Premier inglese o della Bundesliga ne sono gli esempi più avanzati. Se si comparano con attenzione una partita del campionato inglese e una della nostra Serie A la differenza è sconfortante: in Inghilterra si corre per 100 minuti, in Italia si passeggia; là il gioco è fluido e continuo al punto che i replay televisivi faticano a trovare il momento per essere proposti, da noi è continuamente spezzettato da uomini che si mettono le mani addosso e rotolano a terra (pretendendo che la palla sia buttata fuori); gli arbitri italiani sono costantemente inseguiti da capannelli di giocatori urlanti; gli spalti inglesi sono gremiti anche nelle partite tra squadre di fondo classifica, quelli italiani non raggiungono il tutto esaurito nemmeno nelle partite tra le big. Potremmo continuare, ma la traduzione economica è impietosa: i diritti tv esteri della Premier sono clamorosi, quelli della Serie A sempre meno richiesti. In Asia i telespettatori guardano anche i match spagnoli e tedeschi, ma raramente quelli italiani. L'abisso tra il calcio italiano e quello tedesco e inglese (ma anche olandese e francese: dove gli stadi sono pieni) si sta creando in questi anni su un punto molto semplice: il calcio italiano è percepito come sempre più brutto rispetto a quello dei paesi concorrenti.

Non ce ne siamo accorti, ma ormai le partite della Serie A interessano solo i tifosi italiani. Con una complicazione: allo stadio ci vanno ormai solo gli ultras (con tutti i problemi che ben conosciamo) e sempre meno gli appassionati. La scomodità degli stadi e la crisi economica c'entrano fino a un certo punto, perché proprio i casi inglese, tedesco o francese mostrano che esiste una fascia consistente di tifosi che è disposta a spendere per vedere delle belle partite allo stadio (e molti impianti non sono poi così comodi come si decanta qui in Italia: sono semmai più fascinosi). Il problema è che il calcio italiano di vertice non offre più delle esperienze piacevoli, e dunque la maggioranza degli appassionati resta a casa, davanti alla tv, dove spende quel che ritiene più adeguato (cioè poco) al valore dello spettacolo offerto. Restando irretita dal degrado morale e culturale di un calcio narrato dalle moviole e da ultras travestiti da giornalisti. Si tifa contro, ovunque, a prescindere: e manca sempre un rigore a qualcuno.

I resoconti delle partite del 26 dicembre 1971
in una pagina dell'edizione del "Corriere dello sport" del giorno dopo
Per risalire la china occorrerebbero idee nuove e determinazione nel perseguirle. Ma la Lega di Serie A mostra da anni di non averne più e di limitarsi a litigare per un becchime sempre più esiguo. La pausa natalizia è un esempio clamoroso di come si butti via da anni un'occasione straordinaria. Durante le vacanze le famiglie sono alla ricerca di occasioni di svago e di divertimento. Gli attuali dirigenti calcistici italiani mostrano di non riuscire nemmeno a immaginare di poterle intercettare. E' come se durante il periodo in cui le famiglie si dedicano allo shopping i negozianti tenessero chiusi i negozi. Eppure è quello che accade da anni in Lega. Ma non è sempre stato così: c'è stato un tempo in cui la Serie A andava in scena nei giorni delle vacanze tra Natale e Capodanno, come fanno da sempre gli inglesi. La differenza è che loro continuano a farlo (non senza eccessi), noi invece abbiamo smesso e ci siamo dimenticati che i nostri padri andavano allo stadio durante le vacanze di Natale. Quando? Ancora il 30 dicembre 1989 e 1990, o il 31 dicembre 1983 e 1988, o il 2 gennaio 1994 o 1983. Sono vent'anni che si gioca al più tardi il 23 dicembre e si riprende al più presto il 4 gennaio. Nella stagione 2006-2007 si arrivò addirittura a una sospensione dal 23 dicembre al 14 gennaio. Ma quarant'anni prima si giocò il 24 e il 31 dicembre 1966 e l'8 gennaio 1967. Nel 1971-1972 si giocò il 26 dicembre e il 2 gennaio.

Perché si è smesso di farlo? Per miopia (la supposta marginalità degli incassi al botteghino) e per soddisfare i piccoli privilegi (il "diritto" al riposo) di tutte le componenti calcistiche. L'elemento distonante è che si tratta di liberi professionisti e di aziende votate, in teoria, al profitto. Il pasticcio è tale per cui la Serie A si blocca per due settimane sul più bello, cioè prima dell'assegnazione del titolo di campione di inverno: i giocatori stranieri volano in sud America, gli altri sulle spiagge australi, tornano in una forma che dir precaria è un eufemismo, e i tecnici constatano la difficoltà di riprendere il filo dove era stato interrotto. Raramente le partite della Befana sono di livello: già lo spettacolo è in decadenza: in questo modo lo si svilisce ancora di più.

Eppure basterebbe un'idea talmente banale da non essere nemmeno concepibile da una generazione come quella attuale di dirigenti inadeguati e indegni eredi della nostra tradizione calcistica. Basterebbe istituire un formato per cui il titolo di campione di inverno venga aggiudicato il giorno dell'Epifania, giocando i due turni precedenti il 26 dicembre e il 1° gennaio: tre giorni di festa, slegati dalla ricorrenza domenicale. Se gli inglesi affollano lo stadio il Boxing day e il giorno di Capodanno non si vede perché non dovremmo tornare a farlo anche noi, come facevano le generazioni dei nostri padri. Con questa formula, lo scontro per il titolo tra Juventus e Roma, per esempio, sarebbe andato in scena ieri, all'apice agonistico della prima fase di stagione, e non tra reduci da frettolose vacanze esotiche come avverrà domenica prossima. Dopo l'Epifania si dovrebbe sospendere per almeno 20 giorni il campionato, anche per non esporre i giocatori ai rigori delle freddissime serate invernali su campi pesanti e pericolosi. Le squadre che giocano le coppe europee potrebbero così svolgere una più adeguata preparazione per la ripresa dei turni ad eliminazione diretta da febbraio, come fanno da tempo quelle tedesche. Grazie a un'attenta politica promozionale dei prezzi, nei turni natalizi si potrebbero riempire gli stadi con le (invocate, ma solo a parole) famiglie. Stadi più gremiti aiuterebbero ad alzare il valore aggiunto del nostro derelitto campionato. Facendo attenzione agli orari si potrebbe evitare di sovrapporle a quelle della Premier e vendere i diritti all'estero - magari nello stock di tre soli turni ma a più alto contenuto agonistico (il palio del titolo di inverno) ed estetico (stadi più affollati di appassionati, meno spettrali rispetto ai lager in cui si aggirano gli ultras) - approfittando delle pause degli altri campionati (ammesso che le loro leghe non fiutino prima l'affare).

Ma non facciamoci illusioni: l'idea è troppo semplice. Soprattutto, viene da chi ama il calcio come gioco, come spettacolo, come occasione di vita collettiva e ricreativa. E' un'idea vecchia, di matrice umanistica, lontana dagli algoritmi finanziari elaborati dagli uffici studi della Lega (dove si pagano laute consulenze per produrre il declino del prodotto). In quelle stanze si è smesso da tempo di amare il calcio, come constatiamo settimanalmente nel clima violento dei nostri stadi, e quotidianamente in quello intossicato delle nostre radio-televisioni e in quello degradato dell'anonimato sui social network.

Vedi anche "Almost too perfect a metaphor for Italy itself", sull'immagine attuale del calcio italiano all'estero