29 ottobre 2013

Il triangolo delle Bermuda

Daniele De Rossi  - saldissimo  sul piede d'appoggio -
ostacola i progetti di Muriel, velocissimo puntero dell'Udinese
E' lì, tra Castan, Benatia e De Rossi, che si sono finora smarrite tutte le avventure di chi cercava la rotta per arrivare alle spalle di De Sanctis, portiere delle Roma. Il trio ha disinnescato con ogni mezzo - trappola del fuorigioco, concentrazione feroce, tempismo negli anticipi e nei recuperi, talora acrobatici e sull'orlo del precipizio - tutti gli arrembaggi, e Daniele De Rossi (l'elastico portentoso, l'uomo che interpreta due ruoli e svariate fasi nel corso della medesima partita) ha poi solo l'imbarazzo della scelta: a quali buoni piedi distribuirà il pallone, per avviare la manovra di offesa? Passare a Udine non è facile, e non per caso il Friuli era inviolato da un bel po'. Soffrendo e giocando, giocando (anche in dieci uomini) e soffrendo, la Roma ben disciplinata da maestro Garcia vi ha colto tre punti nel modo tipico delle grandi squadre: quelle che alla fine vincono il campionato perché riescono a vincere partite che le altre normalmente perdono. Difficile dire cosa possa succedere perché il destino non si compia: il clima (non solo meteo - e qui occorrerebbe ripassare qualche capitolo di Brera) di Roma? Gli infortuni (sempre possibili e mai relativamente prevedibili)? Un ritorno della Juve a ritmi e convinzioni e intensità di gioco che ormai solo raramente produce? La fragorosa (possibile, certo: ma a Roma ha già pagato dazio) esplosione del Napule?

Avere il pallone tra i piedi e non saper bene
cosa fare: lo stile di gioco di Nigel de Jong
Una cosa è certa: tra le protagoniste della Serie A quest'anno non ci sarà il Milan. Più volte, qui, mi sono soffermato a discuterne pregi (pochi) e difetti (molti, anzi parecchi). La limitatezza di Allegri è ben leggibile ora nell'insistenza di una scelta che non sembra prevedere eccezioni: la presenza fissa nell'XI di Nigel de Jong. L'olandese gioca grosso modo nel Milan alla De Rossi; rientra meno di frequente sulla linea dei centrali (anche perché nel gioco aereo - a differenza di Capitan Futuro - è un mezzo brocco), raramente varca la linea di centrocampo. Interdice sulla trequarti, spesso rischiando parecchio, ma poi - quando recupera la sfera - non ha qualità di tocco, rapidità e intelligenza di visione tali da considerarlo un (seppure solo onesto) regista arretrato. Allegri lo tiene lì allargando Montolivo, e la manovra del Milan non ha fluidità, non ha efficacia, non ha fantasia, non produce nulla di imbarazzante per gli avversari; ai quali è sufficiente che il pallone non transiti dalle parti di Balotelli in zone pericolose. Per farla breve: l'anno scorso la risalita dei rossoneri coincise con il grave infortunio subito dall'olandese. Coincise: ma coincidenza non fu.

Mans

28 ottobre 2013

Le ambasce di Carlo

Cartoline di stagione: 11° turno 2013/2014

26 ottobre 2012, Camp Nou, Barcellona
Il Cavaliere pallido ha giocato la sua ennesima partita siderale
Cartolina insolitamente lunga, questo week end, dal Camp Nou [card] per segnalare una delle più belle partite della stagione. Avevamo ammirato un grandissimo Bayern annichilire a inizio mese il City in trasferta [vedi], qualche bella partita dell'Arsenal, soprattutto quella con il Napoli. E poco più. Soprattutto il secondo tempo del clásico, intensissimo, ha tenuto fede alle attese, mostrando il meglio che possano offrire attualmente il Barça e anche il Real: un Iniesta a livelli siderali, un Neymar che si è annunciato con un gol e un assist, alcuni bei giovani del Real (Carvajal, Illarramendi, Jesé), varie occasioni blancas sventate da un eccellente Víctor Valdés. La scelta del Tata Martino sembra rivelarsi azzeccata: la squadra viaggia in testa sia alla Liga sia al girone di Champions senza particolari patemi (2 soli pareggi in 13 partite); la qualità del gioco è migliore, più brillante, rispetto all'opacità della seconda stagione; certo, non è più quello guardiolano del biennio hapax 2009-2011; ma la memoria di quegli automatismi vertiginosi (triangolazioni in area, continuum tra pressing e possesso) riemerge a sprazzi, come nel secondo tempo del clásico. La ricerca di Martino è quella di nuove soluzioni (in primo luogo i lanci lunghi); soprattutto appare voler coniugare le qualità ormai assodate con un maggiore pragmatismo, che si risolve in un atteggiamento più attendista della squadra, con baricentro più basso, e nell'innesco di ripartenze veloci negli spazi, lanciate da Iniesta in modo superbo e finalizzate non solo da Messi (sabato sera apparso un po' in tono minore) ma anche da un umilissimo Neymar. Non si vede al momento, in Europa, a parte il Bayern, un'altra squadra così equilibrata e così bella.

Più complesso, ovviamente, il discorso che riguarda il Real. Le macerie lasciate da Mourinho sono ancora fumanti e la storia dice che le squadre che il portoghese abbandona dopo averle prosciugate di ogni risorsa nervosa (Porto, Inter, Chelsea e ora Real) faticano a lungo prima di rimettersi in piedi. Carletto nostro sembra avere le qualità (saggezza, esperienza, bonomia, oltre che sapienza tattica e gestionale) per poterci riuscire. Il problema è che, oltre alle macerie lusitane, la rosa è stata indebolita da un mercato di immagine più che di sostanza: la vendita, senza sostituzioni adeguate, di uno dei tre migliori assistman di questi anni (Ozil, al pari di Iniesta e Totti), di un grande centravanti capace come pochi di fare reparto da solo e di creare spazi per chi arriva da dietro (Higuain), oltre che di alcune riserve di qualità come Callejon, Albiol e lo stesso Kakà, non ha trovato compenso tattico alcuno. Né Bale, né Isco né Illarramendi hanno le caratteristiche per colmare le partenze di Ozil e Higuain. E le difficoltà di creare gioco e pericolosità lo confermano.

Altro che sopracciglio ...
Come da copione, la stampa spagnola ha scatenato un uragano su Ancelotti dopo la sconfitta (di misura): l'epiteto più garbato che ha ricevuto è stato quello di "miedoso" (fifone, pavido) per aver schierato Sergio Ramos centromediano e Gareth Bale centravanti. Ora, tutto possiamo dire di Carletto, tranne che sia un fesso e che non sappia il fatto suo. A differenza di chi si limita a guardarla, gli allenatori sanno che una partita dura 95 minuti e che si schierano 14 giocatori lungo quell'arco di tempo. Il nostro ha ritenuto che il Barça si sarebbe lanciato all'attacco nel primo tempo (come poi è stato) e ha schierato tre attaccanti capaci di involarsi negli spazi (Cristiano, Bale e Di Maria): indisponibile Xavi Alonso, ha messo al suo posto Ramos, col risultato che il Tata ha subito dovuto esiliare Messi sulla destra. Passata un'ora e placatasi la furia blaugrana, ha operato i cambi: prima il più giovane e fresco Illarramendi, per cominciare a tessere il gioco nella metà campo altrui, poi Benzema quando gli spazi si sono ristretti e il gattone poteva provare a dare il suo meglio (e infatti: terrificante traversa che meritava il tripudio dell'incrocio), e infine il promettentissimo Jesé, che ha pure segnato. Con questo assetto il Real ha fatto tremare più volte Valdés e avrebbe meritato il pari. Questo dice l'analisi tattica: il resto è mancia mediatica.

Semmai ci sarebbe da alzare il velo su uno dei molti luoghi comuni: checché si strombazzi, il Real ha pochi campioni in rosa, ed è semmai zeppo di giocatori sopravvalutati. Campione era Casillas, ma si è appannato, e lo sono solo Ramos, Xavi Alonso, Ronaldo e, in potenza, il giovane Isco. Ma ci fermiamo qui. Sopravvalutati a vario titolo sono Diego López, Modric, Bale, Khedira, Di Maria e Benzema: ottimi giocatori, ma non dei campioni che sappiano fare la differenza. La linea di difesa, poi, è composta da ronzini, da Pepe e Arbeloa a Coentrao e Marcelo. Ci sono invece dei promettentissimi giovani oltre a Isco: Varane e Carvajal, Illarramendi, Morata e Jesé. Carletto nostro si sta misurando con questi limiti, oltre che con le macerie e il contesto ambientale. A naso ne saprà uscire vincitore alla lunga. Ha vinto ovunque e vincerà anche a Madrid: magari a cominciare proprio dalla Décima.

Azor

25 ottobre 2013

Italiani in Europa

Fettine di coppa - terzo mercoledì 2013-1014

La seconda e la terza serata di coppe inducono a una riflessione su prestazioni e comportamenti degli italiani impegnati in questa tornata europea. Ne esce innanzitutto corroborata l'osservazione di Mans che le nostre squadre hanno tenuto a galla il ranking: due vittorie, di cui una in trasferta, due pareggi, di cui uno in trasferta, e una sconfitta, in trasferta, tutto sommato immeritata. Nessuna ha brillato ma nemmeno si è infamata. Al di là dei club, la nostra cultura calcistica si è ben portata nel complesso: la partita di cartello del mercoledì di Champions ha visto confrontarsi due grandi allenatori italiani (e Carletto nostro, dopo il ritiro di sir Alex e di Heynckes è, a mio avviso, il migliore di tutti attualmente, per carriera e carisma); Spalletti ha guidato il Gazprom ad espugnare anche la Luz; e il Mancio sembra potersi togliere in terra turca quelle soddisfazioni di coppa che non è riuscito a raggiungere con il City. A gonfiare la vela del PSG sono stati poi anche Sirigu, Verratti e Motta, e non solo Ibra e Cavani, e bene sta facendo pure il reietto (dall'Inter e dall'Italia) Donati col Bayer. C'è di che essere contenti dell'immagine che questi connazionali danno si sé e delle capacità del paese. Non è poco, vista la tendenza immarcescibile al tafazzismo.

24 ottobre 2013, Estadio Santiago Bernabéu, Madrid
Homenajes y ovaciones a Sant'Andrea da Brescia anche nel santuario blanco
Al Bernabeu, in particolare, abbiamo assistito a cose egregie, ma anche ai soliti comportamenti indegni. La novità della serata è stato il cambio di modulo deciso da Antonio Conte, che si è finalmente reso conto dei limiti strutturali del 5-3-2, non solo per la Juventus ma in sé, ed è tornato a una linea difensiva a 4. Gli esperti di  tattica pontificano da un paio d'anni sul 3-5-2, ma a dirla breve basta l'osservazione di Mastro Arrigo: "se giochi a 4 in difesa hai due terzini centrali come nel Metodo" (WW), "con i tre difensori centrali giochi invece col libero"; che - come è noto - sottrae un giocatore al centrocampo, cioè alla creazione di gioco. Mercoledì sera si è vista finalmente una Juve più fluida, capace di una varietà di proposizioni che l'ortodossia del 3-5-2 aveva ridotto al lancio di Pirlo sui due terzini esterni (Lichtsteiner, prevalentemente) o a quello di Bonucci per le incursioni centrali di Pogba e Vidal. Merito di Conte, dunque, quello di sbloccare la situazione a tornare ad adeguarsi al calcio che si gioca in Europa, dove non c'è una squadra di vertice che giochi con 5 difensori. Se lui si è adeguato, non così ha fatto Chiellini: afferrare per il collo gli avversari in area non è sanzionato in Italia (vedi l'ultimo Juve-Milan), ma in Europa sì: il Chiello si è comportato come un pisquano, anche nel caso del rosso (bastava tenere giù il braccio).

Ultime noterelle: la civiltà calcistica degli spettatori madrileni, che hanno tributato l'applauso in piedi (standing ovation nella lingua di Dante) a Sant'Andrea da Brescia al momento della sostituzione, e fischiato sonoramente il ronzino di casa, Karim Benzema. Fischiato - si noti - non insultato. Le poche centinaia di ultras juventini presenti a Madrid si sono invece distinte in eurovisione per il consueto repertorio di insulti: da vergognarsi di esserne connazionali.

Azor

23 ottobre 2013

La monotonia della Champions in autunno

Fettine di coppa - terzo martedì 2013-1014

Nel terzo martedì di coppa hanno noiosamente pedatato due italiane, due tedesche, due inglesi e due spagnole: le nostre hanno fatto complessivamente meglio delle nordiche, e impattato con le iberiche. Di questi tempi, oro che cola: per il ranking è una boccata di ossigeno, per la classifica è invece più importante il pari del Milan rispetto alla vittoria partenopea (ai rossoneri basterà non perdere le due partite con Ajax e Celtic, per andare avanti). Infatti il Dortmund confeziona un bel regalo al solito Giroud, ma si prende ugualmente i tre punti e difficilmente ne perderà a casa sua: lo metterei già tranquillamente nel tabellone degli ottavi, sicché il vero partido de la muerte si giocherà l'11 dicembre al San Paolo: Napoli-Arsenal varrà sicuramente il secondo pass per la fase a eliminazione diretta. Incrociamo le dita, perché da tempo immemorabile i Gunners non escono scornati dal group stage.

Qatar Airways vs Fly Emirates.
Milan e Barça non decollano. Sì, è il Barça, anche se
ha la maglia del Lecce
Per il resto, risultati prevedibili, con l'eccezione dell'importantissima sbracatura interna del Porto, che si fa sorpassare in classifica dallo Zenit di Spalletti e di Gazprom. Persino il pari al Meazza tra Milan e Barça è abbastanza ordinario; match non sgradevole, ma dall'andamento scontato. Notevole, tuttavia, per quanto riguarda il ritorno a una piena efficienza fisica e tecnica di un ex-pallone d'oro e leggenda milanista. Kakà è stato commovente per l'impegno - ai limiti della disperazione -; ha fatto più strada in campo stasera di quanta ne abbia corsa in quattro anni al Real; nel primo quarto d'ora sembrava quasi (quasi) lo stesso di quella famosa serata a Old Trafford, e quando lo si è visto sgommare a tutta velocità sulla parte sinistra dello schermo mentre Robinho molestava Busquets fino a rubargli palla, si è capito che qualcosa stava per accadere. Il Barcellona, dal canto suo, è un XI ormai tornato nella 'normalità'. Può vincere (teoricamente) qualsiasi partita grazie all'immensa qualità dei solisti che vanno sul palco, ma i sontuosi concerti dell'era Guardiola sono oramai davvero un ricordo. Neymar sta vivendo gli stessi problemi di Sanchez, Xavi è accettabilmente declinante, Iniesta meno 'dentro' il gioco, comunque (al momento) meno brillante nell'interpretare uno spartito diverso - troppo semplice, forse, per uno così raffinato. In sostanza, il riassestamento di alcune grandi d'Europa non ha finora prodotto cose entusiasmanti, tanto da lasciar pensare che - per motivi differenti - più accreditabili di tutte siano ancora le due arrivate a Wembley già nella scorsa stagione. Kloppo ha perso Goetze ma l'armeno è un futuro e sicuro campione; il Bayern ha sostituito Heynckes col Pep, ed è solo un investimento. That's all.

Mans

22 ottobre 2013

Il male oscuro

Cartoline di stagione: 10° turno 2013/2014

19 ottobre 2013, Stadio San'Elia, Cagliari
I giocatori locali festeggiano il gol della vittoria davanti a spalti vuoti
4798: questi gli spettatori presenti allo Stadio Sant'Elia - da dove ci giunge la cartolina di questa settimana [card] - per la partita di Serie A di sabato 19 ottobre 2013 tra Cagliari e Catania. Dopo 567 giorni il Cagliari tornava a giocare nel suo vecchio stadio: non quello dello scudetto (era il vecchio "Amsicora", costruito nell'800 e capace di ospitare fino a 26.000 persone per vedere Giggirriva e gli altri campioni guidati dal Filosofo), ma quello costruito per festeggiarlo, la cui capienza era stata portata a quasi 41.000 spettatori in occasione della "ristrutturazione" per i Mondiali del 1990. Per irresponsabilità variamente distribuite tra il Comune di Cagliari, il presidente Cellino, gli amministratori del comune di Quartu Sant'Elena, la Lega di Serie A, e di quant'altri, il Sant'Elia è caduto in fatiscenza, il nuovo stadio di Is Arenas è in smantellamento e la squadra è andata a giocare le partite in casa a Trieste. Una vergogna. Per tutti. Come quella di dover ripartire da meno di 5.000 spettatori, appollaiati sui tubi Dalmine. In Serie A.

Ma non è che altrove sia tanto meglio. All'Olimpico di Roma, la sera prima, per la partita clou di quest'anno si vedevano in televisione ampi spazi vuoti in Tribuna Tevere e nelle curve. Anche domenica, al Franchi di Firenze, per Fiorentina-Juventus, si coglievano spicchi di curva Ferrovia completamente vuoti, oltre al consueto bando dei settori limitrofi alla gabbia degli ultras ospiti. Da quanto tempo è che una partita di Serie A non registra il tutto esaurito sugli spalti? Quando si vedono le partite in tv, le gradinate più vicine al campo sono quasi sempre deserte, spesso dietro a inferriate e a vetrate infrangibili, palesemente inutili: uno spettacolo desolante, che, a lungo andare, farà calare i diritti televisivi. Dove sono finiti gli spettatori che fino a vent'anni fa gremivano quegli spalti? Il fenomeno è noto e su di esso si sono sprecati commenti e analisi. Le argomentazioni degli ultras (tessere, documenti nominativi, code, etc.) non reggono, perché le loro curve sono sempre gremite (e ci entra di tutto, anche quello che sarebbe proibito). Chi scrive quest'anno è andato a vedere Chievo-Napoli al "Marcantonio Bentegodi" della famigerata Verona (città razzista, forse, ma curiosamente solo a settimane alterne) e Fiorentina-Cagliari (al Franchi), ha acquistato i biglietti in pochi minuti (in banca e al box office), è entrato allo stadio quasi al fischio di inizio, senza code e filtrato da steward gentilissimi, ha trovato libero il posto assegnato (tribuna distinti e parterre, mica nei settori vip) e utilizzato toilette decenti. Dunque, si può ancora andare allo stadio a vedere partite ordinarie - che sono la maggioranza, ogni domenica - come lo si faceva venti o trent'anni fa, prendendosi magari poi anche una piadina e una birrozza all'uscita nei chioschi adiacenti, senza problema alcuno. Gli spalti, però, sono ormai mezzi vuoti quasi ovunque. C'è qualcosa che non sembra più tornare. E ci torneremo sopra.

Azor

21 ottobre 2013

Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande ...

15 dicembre 1998, Firenze. 
Fiorentina-Juventus 1-0: al 58' Batistuta
Si tolleri la citazione dantesca del titolo: quindici anni dopo, il calcio regala, finalmente, un'emozione. Un campionato prodigo di cori razzisti, polemiche, scontri, violenza e diritti tv, la «grande macchina» montaliana di denaro, scommesse, ingaggi e disingaggi (Trentadue variazioni, 1973), ogni tanto genera un fiore. Un giglio, stavolta. Il 15 dicembre 1998 Lulù Oliveira dalla trequarti di sinistra serviva un traversone, apparentemente innocuo, per la testa di Gabriel Omar Batistuta. La catatonia di Igor Tudor, vigoroso centrale spalatino dei bianconeri, abbandonava Peruzzi, solo ed inerme, alla mercé dello spietato goleador di Reconquista. Uno a zero, ennesima zampata del Re Leone, the one and only, non la sbiadita copia basca ammirata ieri in maglia bianconera che risponde al nome di Fernando Llorente Torres. 

20 ottobre 2013, Firenze
Fiorentina-Juventus 4-2: l'incredula esultanza dei viola
In questa riedizione del big match Fiorentina-Juventus, lʼennesima delusione del tifo viola era ormai già confezionata: una squadra apatica, stanca, macchinosa, spuntata e mai verticale pareva ormai in balìa della corazzata bianconera. Ma in 15 minuti accade l'imponderabile: i nuovi entrati Mati Fernandez e Joaquín destano la compagine di casa e rivitalizzano il vero fenomeno viola, Pepito Rossi, degno erede dellʼindimenticato Batigol. Tre goals e il tripudio, tanto atteso, sotto gli occhi di 40.000 increduli, estasiati tifosi. 

Il campioncino italo-americano è tutto fuorché un personaggio: discreto, silenzioso, umile, timido, lontano dal glamour e dalla mondanità. Papà di Fraine, nell’Alto Vastese, mamma di Acquaviva di Isernia. Non eravamo più abituati a calciatori del genere, senza l'ormai insostituibile corteo di modelle, notti in discoteca, sfuriate in campo, creste e vezzi da superstarMa, citando Pasolini, «il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno» (Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, 1971). 

Fraine (Chieti).  Rossi nel paese 
d'origine del padre Fernando, 
scomparso nel 2010
Guardando Rossi palleggiare nel riscaldamento prepartita, si riscopre quella poesia, la passione pura per il calcio; in quegli sfoggi di destrezza lo vediamo retrocedere romanticamente all'infanzia, lontano dai danarosi contratti e dalle prime pagine dei tabloids e del gossip più becero. A quell'infanzia ci accompagna, nella sua semplicità: quando anche noi sognavamo, in strade di quartiere mal asfaltate, di calcare palcoscenici prestigiosi con indosso la casacca della propria squadra del cuore. La degna cornice del Franchi coccola il suo anti-campione: è il piacere di calciare un pallone, è ciò che fa sperare, anche se invano, che in fondo è ancora, solo, calcio. Il rito, la rappresentazione sacra, il simulacro, il teatro, la gioia, l'inganno. Come diceva il Trap, «il pallone è una bella cosa, ma non va dimenticato che è gonfio d'aria».

Duca

8 ottobre 2013

Mal d’Europa

Cartoline di stagione: 9° turno 2013/2014

6 ottobre 2013, The Hawthorns, West Bromwich
La ieraticità conferita dalla barba non riscatta Nicolas Sébastien Anelka
da un mesto autunno da ronzino acclarato
Biancospini, The Hawthorns: da questo stadio imponente nel circondario di Birmingham – non per caso soprannominato dai tifosi The Shrine, il Santuario – giunge la cartolina di questo turno europeo [card]. Vi gioca dal 1900 il West Bromwich Albion Football Club, con scarse fortune: un solo campionato (nel 1920), 5 FA Cup (l’ultima nel 1968), più recentemente il titolo della Football League Championship (nel 2008). In sostanza, chi ama il buon calcio ci viene per vedere giocare le grandi squadre in trasferta. Domenica scorsa era il turno della capoclassifica, l’Arsenal. Che vi si è inaspettatamente arenata, dopo 5 vittorie di fila, molto faticando a strappare un pareggio contro una compagine che la insegue già (si fa per dire) a 7 punti di distanza dopo poche giornate. I Gunners hanno giocato male, in maniera irriconoscibile rispetto alla squadra sfolgorante che nel mercoledì precedente aveva rullato – “hammered” direbbero gli inglesi – il Napule di Benitez, ubriacandolo sul ritmo, col pressing, coi passaggi di prima e le incursioni da tutte le direzioni.

Contro il WBA gli stessi giocatori ricordavano lo champagne avanzato dal giorno prima: ritmo inesistente, blanda opposizione alle avanzate veloci degli avversari, palla attesa sui piedi e scattino a infrangersi sul piede o sull’anca dell’avversario. Poteva finire anche peggio se non ci avesse pensato quel vecchio ronzino sopravvalutato di Nicolas Anelka, ora in dote ai Baggies, che si è mangiato almeno due occasioni enormi da solo davanti al portiere. Che è successo? Una cosa banalissima: il mal d’Europa. Hai voglia a dire turn-over: più che fisica, in autunno, è una questione mentale. Pochissimi sono i gruppi di giocatori capaci di tenere alta e costante la concentrazione. Al momento è un esercizio eretistico in cui si stanno cimentando solo l’Atletico Madrid e il Barcellona. Le altre hanno ceduto il passo tutte: da noi fa specie la Juve, ma è il caso anche del Real, del Bayern, del Dortmund, dello stesso PSG, per non dire dei più malconci Manchester. E diciamocelo francamente: per fortuna. Sennò sai che noia.

Azor

7 ottobre 2013

Il gran ballo dei pretendenti

Le prime sette giornate della Serie A sembrano avere stabilito - probabilmente in via definitiva - la griglia delle pretendenti al titolo. Sono tre: la Juve campione, Roma e Napoli. Il Napoli era atteso a questa parte, la Roma no. Entrambe hanno cambiato allenatore, ingaggiandone - rispettivamente - uno di fama  mondiale (Benitez) e uno (Garcia) che in Francia aveva portato al vertice il Lille, sollevandolo da un'aurea mediocrità. E così, mentre Conte appare nelle conferenze stampa sempre più incerto circa l'immagine che vuole dare di sé (un uomo tranquillo? depresso? compresso?), la sua Juve appare sempre più compassata, lenta, incapace di variare ritmo e di esplodere il suo proverbiale furore agonistico. Niente più pressing. Manovre scontate, e il solo Tevez a cercare la giocata che fa saltare il tavolo. Questa rosa di giocatori, evidentemente, ha già dato il massimo e ora amministra (con esperienza e distrazioni) il declino, tra vittorie striminzite, vittorie immeritate, pareggi impronosticati.

Il Napule viaggia verso un lento assestamento, il turn-over sistematico è utile a Benitez anche per una scrematura in prospettiva (quella di una squadra che deve rimanere al vertice con continuità), e solo per caso non è a punteggio pieno come la Roma: per via di un pareggio interno con il Sassuolo del tutto estemporaneo - e occorso dopo la sbornia della prima in Champions, cioè dopo aver rimandato in Prussia scornata la banda di Klopp.

La Roma ha portato una maggiore freschezza di gioco, e un modo nuovo di giocare. Difesa molto bloccata (grande, grandissimo acquisto quello di Benatia, il miglior difensore centrale del campionato), rinforzata all'occorrenza De Rossi, capace di sdoppiare le proprie mansioni (ecco uno che a Pozzo sarebbe piaciuto tantissimo); centrocampo di grande qualità, e due incursori esterni di rara velocità. Gervinho sembra avere a Roma l'impatto esotico-estetico che ebbe Gullit a Milano un quarto di secolo fa; naturalmente non lo vale, ma le sue cavalcate entusiasmano il pubblico e scardinano le difese altrui. Che ciò sia sempre propedeutico a iterati e colossali sprechi, lo vedremo. Per ora non è così. E c'è poi il simbolo contemporaneo dell'Urbe, l'eterno Pupone, che di questo passo smetterà di giocare dopo il successore designato (Capitan Futuro). Totti gioca nelle zone di campo che lui medesimo sceglie, ed essendo dotato di  fosforo - oltre che di una classe - inarrivabile regala a ogni partita pezzi del suo repertorio migliore. Finora, la miscela è stata davvero esplosiva. Chi ha visto le partite della Roma non può che esserne rimasto appagato; anche quando ha apparentemente sofferto, come a San Siro. A San Siro, il contropiede del terzo gol (in pochissimi secondi la palla è transitata dall'area della Roma all'interno della porta difesa da Handanovich) è da tenere in memoria, poiché da anni non se ne vedeva uno così.

Speriamo, in sostanza, che la Roma duri. E che, insieme alle altre, dia finalmente vita a un campionato vivo, appassionante e con sprazzi di grande gioco.

Mans

3 ottobre 2013

L'alba

Fettine di coppa: secondo mercoledì 2013-2014

2 ottobre 2013, City of Manchester Stadium, Manchester
La Poznan celebration dei tifosi del Bayern
Potrebbe essere ricordata come la prima partita del lungo ciclo memorabile di Guardiola al Bayern. Ieri al City of Manchester Stadium abbiamo assistito alla magnificente dimostrazione di grande calcio dei Rossi di Baviera così come finora lo aveva immaginato solo il Pep. L'opera dei grandi allenatori assomiglia a quello dei grandi compositori musicali: armati di matita e pentagramma inventano armonie, contrappunti e melodie, ma solo nella propria testa. Poi noi ascoltiamo l'esecuzione, con tutti i cromatismi timbrici e il vigore orchestrale. Così i grandi architetti del gioco vedono nella loro mente l'espressione finale della loro costruzione prima che questa si riveli agli occhi di tutti sul campo. Ed è attributo solo dei grandi. Gli altri navigano tra gli schemi, la tattica e il mantra del "lavoro". È invece privilegio di pochi la visionarietà. E di ancor meno la capacità di coniugarla alle vittorie. Il Pep è uno di questi pochissimi nella storia del calcio.

Contro il Manchester di Pellegrini si è cominciato a vedere, almeno per un'ora, il gioco che ha in mente Guardiola. Tra i cui pregi è quello di adattarlo alle qualità dei giocatori, senza imporre loro un'idea astratta. Prima del ritiro di Riva del Garda la memoria ci consegnava due grandi squadre con due idee di gioco simili nel possesso, ma non identiche nell'interpretazione in campo: il Barça del Pep e il Bayern di Heynkes. Il Bayern di Guardiola è, e sarà, una realizzazione diversa. Due giocatori come Robben e Ribéry il Pep non li aveva a Barcellona, e nemmeno un centravanti come Mandzukic (pensava lo potesse essere Ibra, forse, ma non è stato così), e Lahm non ha le caratteristiche di Busquets, e un dettatore ritmico come Xavi non lo ha a Monaco, così come ovviamente non ha un altro Messi. Eppure l'idea di gioco è sontuosa: propositiva, egemonica, capace di coniugare la ragnatela di passaggi di prima alle sovrapposizioni, il pressing sulla trequarti ai raddoppi sulla mediana, i lanci lunghi (magnifico quello di 40 metri di Dante per il secondo gol di Müller) alle triangolazioni in area. Al di là dei 35 tiri verso la porta del malcapitato Hart ha impressionato anche la maggiore solidità difensiva rispetto a quella del suo Barça. Siamo al 2 ottobre 2013: a che punto sarà l'interiorizzazione del gioco da parte dei Rossi il prossimo marzo quando si giocheranno i quarti di Champions? La prospettiva è vertiginosa.

Azor

2 ottobre 2013

L'indomabile banda del 'Cholo'

Fettine di coppa: secondo martedì 2013-2014

Si era già avuta conferma al Bernabéu, nel derby di Madrid: mettere sotto l'XI del 'Cholo' è dura, durissima. E anche quando sembra tu riesca a mettere la gara sui binari sperati, i Colchoneros trovano risorse e cattiveria in grado di riportarli a galla: e a quel punto saranno loro a cacciarti con la testa sott'acqua. E' accaduto ieri sera a Oporto. Vincere qui non è mai facile. Vincere in rimonta, un'impresa. A nulla è valso il bel gol di Jackson Martínez - colombiano, uno dei numerosi talenti di quel paese ingaggiati dai club europei (lui era già noto, ma ne spunta uno a partita), ciò che aggiunge curiosità per il prossimo mondiale: pronostico sin da ora una semifinale tra Colombia e Belgio ... -, e lo schema su calcio franco che ha prodotto il due a uno è un autentico capolavoro. Credo abbia sorpreso tutti, per come è stato perfettamente dissimulato.

Quanto al resto, partite un po' noiose e un po' scontate. All'Emirates si è percepita chiaramente la differenza di ritmo tra una squadra (di vertice e in forma) della Premier e una (di vertice e in forma) della Serie A. In pochi minuti i Gunners hanno schiantato il Ciuccio (anche se l'assenza di Higuain un'incidenza ce l'ha: merito del Napoli, comunque, non essere rimpatriato con uno score più umiliante), poi si è vista dell'accademia. Il ritorno in piena efficienza di Aaron Ramsey (solo 23 anni, è lui il pedatore gallese migliore, alla faccia di Bale) fa certamente una bella differenza, e lo stesso si deve dire di Ozil. Visto poi il rendimento di Giroud, a Poldo resteranno montagne di gol inutili da segnare nel campionato dei Reserve Team. Sul Milan è invece lecito glissare, anche se andrebbero glossate molte 'anomalie' difensive. E' al momento una squadra capace di soffrire ma non di giocare a pallone, e capace di salvarsi sempre (in un modo o nell'altro) negli istanti finali. Così, l'estrema unzione è sempre rimandata, e c'è sempre una partita da giocare, utile a coltivare speranze e illusioni.

Mans

1 ottobre 2013

Il Meticcio

Cartoline di stagione: 8° turno 2013/2014

28 settembre 2013, Estadio Santiago Bernabéu, Madrid
Negli occhi del castrone gallese tutto lo smarrimento blanco
Non può non arrivare che da Madrid la cartolina di questo turno [card], che pure ne ha viste delle belle anche a Manchester, al White Hart Lane o all'Olimpico di Torino. Del Real Madrid toccherà certamente parlare anche in futuro perché Carletto nostro sta masticando il pane duro con cui si sono misurati i suoi predecessori: la squadra la assembla quell'incompetente fanfarone di Florentino Pérez, agli allenatori tocca provare a fare vincere un mazzo di figurine eterogenee (ultima quella di un castrone gallese pagato leggermente oltre misura). Lo Special One vi è diventato Normal One anche perché si era illuso di poter controllare lui la macchina: ha fatto fuori tutti, da Valdano a Zidane, tranne l’unico che non poteva decapitare, ed è stato un fracaso total. Carletto ha fisico e tempra per potercela fare, anche se le cose gli si sono un po' complicate con la vendita di due tipi che sanno anche giocare al calcio, Higuain e Ozil: adesso è rimasto con i Di Maria e i Benzema. Non sarà facile.

Qui invece vorremmo alzare il giusto peana al Meticcio, al secolo Diego Pablo Simeone, che lo onora sfoderando in quest’annata un look primi anni ottanta, tra il dark, il macho e i molti afrori, che se non fa più tendenza lo distingue comunque dalla massa. El Cholo aveva già vinto in Argentina, ma è in questo biennio a Madrid che ha mostrato tutte le sue qualità, vincendo lo stesso numero di titoli del Profeta di Setubal, e mostrando di saper battere chiunque (gli manca solo il Barça, cui ha lasciato la Supercoppa senza sconfitte): ben due volte il Real al Bernabeu (con una Copa del Rey con Mourinho espulso), il Chelsea (Supercoppa UEFA) e Bielsa col suo bell’Athlétic (Europa League). Adesso viaggia alla velocità del Barcellona senza averne i campioni. L’Atletico è però messo in campo in maniera semplice e quadrata, un bel 4-4-2, che l’altra sera ha impedito al Real di giocare la palla. In più ha un paio di giocatori capaci di fare la differenza: il celebrato in queste ore Diego da Silva Costa, un brasiliano candidato a disputare il Mondiale di casa con la maglia roja, bomber devastante; e il meno celebrato, ma forse ancor più bravo Koke, Jorge Resurrección Merodio all’anagrafe, che a 21 anni mette assist a bizzeffe come pochi altri alla sua età. Resteremo sintonizzati: parteggiando, ovviamente.

Azor