27 luglio 2013

La grande smazzata

Manuel Luis Pellegrini Ripamonti accoglie a Carrington
Fernando Luiz Rosa, alias Fernandinho
Rare volte nelle ultime stagioni si era prodotto un ricambio così profondo sulle panchine dei grandi club europei. Più spesso si era ricorsi al trasferimento dei giocatori per cercare di riscattare una stagione deludente. Questa estate appare eccezionale per l'imponente ricambio dei tecnici. Per un motivo o per l'altro, si sono dati un nuovo allenatore: Bayern, Barcellona, Real Madrid, Manchester United, Manchester City, Chelsea, Paris SG e Napoli, per limitarci alle squadre qualificate in Champions League nei maggiori campionati. Delle 8 migliori compagini della stagione trascorsa, solo Borussia, Juventus e Galatasary hanno riconfermato i loro tecnici. Insomma, una grande smazzata che già solo di per se stessa riempie di attesa la nuova stagione, che ripartirà davvero su nuovi assetti.

Questo dato "evenemenziale" trova il suo contraltare nel consolidamento di un dato invece strutturale, di "lunga durata": il dominio, ormai irreversibile, di una ristretta élite europea di "super club", ben evidenziato e analizzato da Jonathan Wilson [leggi]. Predominio che nelle stagioni recenti ha sempre più ridotto i campionati nazionali a competizioni senza sorprese e con poche incertezze, emblematizzate dalla Liga, al cui vertice si alternano ormai da dieci anni solo Barcellona e Real (risale al 2004 la vittoria di una squadra "terza", il Valencia guidato da Rafa Benitez). L'unica competizione che mantiene alta, anzi altissima, la sua sua incertezza è la Champions League, che non a caso continua a sviluppare un'attenzione crescente, e a convogliare risorse umane e finanziarie (l'emblema è in questo caso l'Inter che ha disinvestito costantemente dalla vittoria del 2010 al contrario della sua avversaria di allora, il Bayern, precipitando in un amen al di fuori dell'élite dei super club).

Carletto finalmente alla Casa Blanca
L'esteso ricambio di allenatori intrapreso dai grandi club europei non è certo motivato dalla necessità di garantirsi il primato nei rispettivi campionati (che è un dato ormai strutturalmente acquisito), ma da quello di provare a primeggiare in Europa. A parte il caso doloroso del Barcellona e la successione di Ferguson, è evidente che gli ingaggi di Guardiola, Ancelotti, Mourinho, Pellegrini, etc., si motivano principalmente in relazione agli obiettivi europei. In sostanza, anche un elemento così incerto e aleatorio come il cambio di allenatore, per sua natura "evenemenziale" (il fallimentare triennio madrileno di Mourinho è in questo caso l'emblema), appare orientato a una competizione europea sempre più esasperata. Lo confermano, per converso, anche i trasferimenti più costosi dei calciatori. Cavani, con 64 milioni pagati dal PSG, e Falcao con 60 pagati dal Monaco, sembrano "periferici" rispetto agli obiettivi di primazia europea, se non in prospettiva. Questa estate i super club sembrano aver guardato soprattutto agli allenatori per assicurarsela.

Alla fine solo uno di essi centrerà l'obiettivo. Per altri, a gradazione diversa, il titolo nazionale sarà solo un obiettivo di consolazione. Lo sarà certamente per il Bayern e per il Chelsea, adusi alla vetta e con allenatori di grandi ambizioni. Vincere il titolo nazionale per il Real con Ancelotti avrebbe solo il senso di una placida normalizzazione, dopo i furori e le macerie fumanti lasciate dallo Special One, per poi tentare l'impresa della Decima, per la quale Carletto nostro sembra essere finalmente l'uomo giusto. Per certi versi la Premier sarebbe invece un titolo non secondario per Moyes e per Pellegrini, alla prova con panchine molto pesanti. Gli stessi Conte e Blanc sono costretti a vincere almeno i rispettivi campionati, pena fallimento.

Il sole negli occhi accoglie al Camp Nou Gerardo Daniel Martino,
más conocido como "El Tata Martino"
La smazzata propone anche alcune sfide di grande fascino. La più attesa è ovviamente quella del Pep al Bayern: una squadra che ha vinto tutto, e che possiede la rosa al momento più opulenta, vedrà innestare sulla granitica verticalità difensiva conferitale da Heynkes il possesso-pressing orizzontale di Guardiola; difficile credere a uno snaturamento, ma il grado dell'impresa è al momento solo nella visionarietà del suo mentore, benché la cessione di Gómez e l'acquisto di Alcantara dicano già molto. Fascinosa incognita è l'innesto di Tata Martino nel tiki taka blaugrana: l'uomo è uno sconosciuto ai più, anche alla maggior parte dei sedicenti addetti ai lavori. Personalmente l'ho visto solo sulla panca paraguagia nei mondiali del 2010 (dove stava per mettere fuori la Roja) e non ne trassi una grande impressione di novità rispetto alla tradizione di anti gioco di quel piccolo paese sudamericano. Tata si accredita però come allievo di Bielsa e dunque merita rispetto: chi ne conosce il gioco lo descrive più pragmatico del maestro [Wilson e De Calò]. Resta l'incognita dei tempi e dei modi di adattamento al calcio europeo, più tattico e meno rusticano di quello argentino. La stessa durata del contratto (due anni) è spia dell'incertezza con la quale è comunque accolto dalla dirigenza blaugrana.

A grado minore appaiono interessanti anche le prove cui si accingono Pellegrini al City e Benitez al Napoli. Le differenze delle idee di gioco rispetto ai predecessori sono lampanti: alla qualità dei solisti cui si affidava Mancini subentra il possesso e la trama del gioco tipica del cileno, che avrà a disposizione nuovi giocatori di qualità come Navas e Jovetic e di sostanza come Negredo e Fernandinho; mentre a Napoli Benitez proporrà il suo calcio di possesso alto che sembra avere le sue incognite solo in una linea di difesa al momento di non grande lignaggio. Ma staremo a vedere. Così come sarà curioso seguire l'assemblaggio, arte in cui è maestro, di Claudio Regolo al Monaco, pompato pornograficamente dall'ennesimo oledotto russo che irrora il calcio d'Occidente. Grazie anche a lui potrebbe rivelarsi un'annata di bel calcio di qualità. Almeno, speriamo.

Azor

10 luglio 2013

Il tramonto dell'Occidente

Esattamente un secolo fa un grande filosofo tedesco, Oswald Spengler, cominciò a concepire l'idea di quello che sarebbe poi diventato il capolavoro della sua vita, Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell'Occidente), nel quale teorizzò come tutte le civiltà della storia attraversino un ciclo naturale di sviluppo, fioritura e decadenza: l'Europa del primo Novecento gli appariva in fase di avanzata decadenza, prossima alla fine, perché ormai priva di quelle forze spirituali e materiali che l'avevano vista prosperare nei secoli [vedi]. Come tutte le visioni di ampio respiro la sua opera fu aspramente criticata, ma le tragedie dei totalitarismi, della seconda guerra mondiale e della Shoah diedero in parte ragione alla sua visione non progressiva della storia.

A distanza di un secolo, il declino dell'Europa rispetto alle altre aree del mondo appare ormai un dato icontrovertibile, sotto gli occhi e nel portafoglio di tutti. Un dato sempre più evidente anche nell'organizzazione del calcio di élite. Basti pensare a come i "super club" europei - come li ha individuati e definiti Jonathan Wilson [leggi] - stiano progressivamente passando nella proprietà di facoltosi imprenditori, finanzieri e faccendieri di origine non europea (da ultima l'Inter, che finirà probabilmente in mani indonesiane).

Qui vorrei evidenziare un altro elemento lampante sul quale non è stata posta finora attenzione: la marginalizzazione dell'Europa come sede dei Mondiali di calcio del XXI secolo. E' notizia del 4 luglio scorso che la FIFA è orientata a designare l'Argentina e l'Uruguay quali paesi organizzatori nel 2030, per celebrare il centenario della prima edizione della Coppa Rimet, di cui furono finalisti a Montevideo [leggi]. In realtà l'idea ha preso corpo sin dal 2005 e nel 2015 sarà sancita dalla decisione del congresso della FIFA, orchestrata da Sepp Blatter [vedi]. Non è un caso che circoli già il logo di quel torneo.

Ripassiamo le sedi del nuovo secolo: Corea-Giappone nel 2002, Germania nel 2006, Sud Africa nel 2010, Brasile nel 2014, Russia nel 2018, Quatar nel 2022 e Uruguay-Argentina nel 2030. La Russia appartiene alla UEFA, ma non all'Unione Europea, perché non è un paese meramente europeo per la sua storia e la sua civiltà bifronti, eurasiatiche. E' un paese dei Brics (e - si noti - mancano all'appello, di questi, solo India e Cina come organizzatori dei mondiali, e presto ci arriveremo, come anche all'Oceania). A rigore, l'unico paese europeo che avrà ospitato i Mondiali nelle prime 8 edizioni del XXI secolo sarà dunque la Germania. Sì, perché non c'è da illudersi: per il tassello mancante, quello del 2026, sono in corsa solo stati americani: Canada, Messico e Colombia [vedi]. Dunque, se va bene, si tornerà a vedere (alcuni ormai seduti in grembo a Eupalla) una fase finale dei mondiali in Europa (sul medesimo fuso orario oltretutto) forse solo nel 2034, tra più di vent'anni.

La differenza con il Novecento è clamorosa. Nove edizioni su 16 si tennero nel vecchio continente: due volte in Italia e in Francia, una in Svizzera, Svezia, Inghilterra, Germania e Spagna. Le grandi nazioni calcistiche l'hanno ospitata tutte, ma - si noti - l'Inghilterra arriverà a poterne eventualmente accogliere la seconda solo dopo 68 anni (1966-2034): la Francia ha dovuto attendere 60 anni (1938-1998), l'Italia 56 (1934-1990), la Germania 32. Difficile poi ipotizzare cosa ne sarà dell'Europa politica ed economica nel 2034: ipotizzare, cioè, quale paese, o coalizione di paesi, sarà in grado di trovare le risorse - e di intercettare il consenso politico interno - per sostenere una manifestazione sempre più costosa (perché affaristica, per i soliti noti). L'Europa sta avviandosi a un lungo periodo di declino economico e di povertà sociale, nel quale l'area mediterranea è già ben dentro, e di cui nessuno sa ipotizzare l'esito.

L'emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa Al-Thani,
e il sultano del calcio mondiale festeggiano l'affare del 2022
Non a caso, la stessa organizzazione degli Europei attraversa una fase di mutazione: coalizioni di paesi "ricchi" nel 2000 (Belgio-Olanda) e 2008 (Austria-Svizzera), paesi emergenti, molto "liquidi", nel 2012 (Polonia-Ucraina), soluzione itinerante senza spese infrastrutturali nel 2020. A una fase espansiva, ormai tramontata, di dilatazione della spesa pubblica appartengono gli Europei in Portogallo del 2004 (che il paese non poteva evidentemente permettersi, come la Grecia le Olimpiadi dello stesso anno). E' molto probabile che anche la Francia pagherà un prezzo elevato alla sua volontà di grandeur nel 2016. Nota bene: per il 2024 avrà grosse chances la Turchia - dinamicissima ed autoritaria (come Brasile, Russia e Quatar: dunque perfetta agli occhi dei capitani del vapore, benché le rivolte di piazza siano un segnale clamoroso di dissenso, che sfrutta proprio il potere del calcio per manifestarsi) -, e per il 2028 la coalizione Azerbaijan e Georgia. Tutti e tre paesi storicamente non europei.

Questi sono i dati di fatto. Non entro nelle interpretazioni ideologiche: ad alcuni potrà sembrare uno scenario positivo, di emancipazione e di accesso da parte di molti paesi a pratiche e consumi fino a pochi anni fa riservati all'Occidente; ad altri potrà sembrare invece uno scenario negativo, esito di una globalizzazione non governata e destinata probabilmente a implodere (per assenza di katechon come argomenta Massimo Cacciari [leggi]). Mi limito a stare al centro del campo: ormai le grandi nazioni europee in cui il calcio è nato e si è sviluppato nel primo secolo e mezzo di storia non hanno più le risorse per mantenerlo agli standard commerciali cui è arrivato. Questa è la realtà attuale e soprattutto prossima ventura. Se conveniamo sul fatto che il calcio, come pratica culturale, si nutre anche di memorie, e pertanto di identità, uno scenario come quello in atto non potrà che rivelarsi alla lunga - ma forse anche alla media - negativo.

Azor

1 luglio 2013

Bentornato Futebol

Torres!
Il 29 giugno 2008, alle 21.20 - finale Euro 2008, Spagna-Germania, gol di Torres - cominciava per il Calcio una nuova era. Due anni prima una nazionale italiana di gran qualità, poca intraprendenza e qualche scheletro nell'armadio aveva vinto rocambolescamente il Mondiale, sconfiggendo nella finalissima berlinese una selezione transalpina parimenti meritevole: in quello scontro estremo erano andati in scena i penultimi battiti d'ala di esperienze internazionali pluriennali di primo piano, all'insegna del talento, dell'imprevedibilità, del successo (Zidane, Totti, Vieira, Del Piero, Trezeguet, Inzaghi, etc.). All'Ernst-Happel-Stadion di Vienna Luis Aragonés, el sabio de Hortaleza, imponeva nell'alveo del calcio che conta uno stile di gioco accattivante ed efficace, basato su possesso palla e rapidità, e regalava ai patriottici (?) Spagnoli l'immensa gioia del trionfo - tanto anelato, dopo 44 anni di siccità - inseguito al grido martellante di Juntos podemos ("insieme possiamo").

29 giugno 2008, Ernst-Happel-Stadion, Vienna.
L’inizio: il Triumphus di Luis Aragonés
Ma fu davvero "saggio" Aragonés? Curiosa l'origine dell'epiteto: in famiglia, il sabio in realtà era Matías, fratello maggiore prematuramente scomparso, così definito semplicemente perché spesso deambulava per il barrio madrileño di Hortaleza con un libro in mano, il che fa sospettare che la lettura non fosse tra le pratiche più consuete nelle periferie della España profunda degli anni Cinquanta. In seguito il soprannome passò al più giovane e celebre Luis, che per la sua andatura pesante e singolare viene ancor oggi chiamato Zapatones ("scarponi"). Al di là degli appellativi, l'edificio tattico aragonésiano era gradevole al palato dell'appassionato non tanto per le doti inventive del ct, quanto perché risultante dall'applicazione e aderenza al modello del Barça. Insomma, Luis non ebbe né un bel soprannome, né un bel gioco suo.

Nel frattempo, però, il regresso del club culé si è evidenziato nelle ultime partecipazioni alle competizioni che contano. Non tanto nell'episodica interruzione del regno incontrastato della soporifera Liga (vinta comunque nel 2008/2009, 2010/2011 e 2012/2013) per merito di un Real Madrid meno talentuoso e sgargiante ma decisamente più pratico - in puro stile Mou -, spesso superiore anche in Copa del Rey, quanto per i segnali d'allarme lanciati sui fastosi scenari della Champions League, conquistata dal Barça nel 2006 (ai tempi di Ronaldinho ed Eto'o), 2009 (Eto'o e Henry) e 2011. Un breve riepilogo: nel 2010, la dura lezione impartita dall'Inter del triplete in semifinale; nel 2012, la trappola di un Chelsea abbottonato e spietato; nel 2013, il baño bavarese. Nel corso degli anni, sono stati sviluppati gli anticorpi per un gioco già in involuzione, che gradualmente ha perso brillantezza e rapidità per ripiegarsi su un possesso palla prolungato all'estremo fino a scontrarsi con la sterilità, fraseggi rinculati e rarissime verticalizzazioni, tutte affidate al talentuoso trust Xavi-Iniesta-Messi. Come veri e propri antidoti al tiqui taca, si sono avvicendati una pressione asfissiante, catenaccio e contropiede, sfida sul possesso palla, ritmo vertiginoso e ricerca della verticalità: le ricette per la cura sono plurime e tutte a loro modo efficaci.

Il gioco della Roja ha seguito, passo dopo passo, questo declino, parzialmente mascherato da successi meritatissimi, ma in gran parte riconducibili alla pochezza o alla pavidità reverenziale degli avversari. Il dibattito su doble pivote e falso 9 sono elucubrazioni atte ad eludere il tema di fondo, ossia un atteggiamento sempre meno spavaldo ma sinora confortato da risultati, primati e letargie sempre più diffuse sulle tribune e di fronte ai televisori. Qualche noiosa statistica lungo il cammino Euro 2008-Mondiale 2010-Euro 2012: il possesso palla spagnolo passa dal 50% (2008) al 59% (2010) per giungere al 63% (2012); la media di passaggi necessari per giungere a un tentativo a rete, che nel 2008 era già piuttosto alta (33), giunge a 44 nel 2010 e a 58 nel 2012.

30 giugno 2013, Estadio do Maracana, Rio de Janeiro 
Xavi e Torres a testa bassa. La fine?
Pochi giorni fa, in dichiarazioni volutamente provocatorie prima della finale della Confederation Cup, Scolari vaticinava l'imminente fine dell'era spagnola. Felipão sfidava e sbruffoneggiava, ma non mentiva: la progressiva perdita di ritmo del gioco iberico ha traghettato la Roja al punto più basso della parabola, sino a mostrare il fianco già intravisto in Euro 2012 (con l'Italia nel girone e con il Portogallo in semifinale) e definitivamente scoperto in quest'ultima competizione (con la Nigeria e nuovamente con una modesta e timorosa Italia). Scolari, Neymar, Fred, Hulk, David Luiz, Marcelo & C., nel momento in cui la Seleçao palesa il peggior indice tecnico della storia calcistica carioca, mettono in campo una miscela di solidità teutonica, garra argentina e rapidità britannica per sbaragliare il fútbol sotto ritmo spagnolo. Il risultato, al di là del trionfo in patria, è notevole: è lo stimolo, in vista del mondiale dell'anno venturo, ad una nuova proposta di calcio per i campioni del mondo in carica e per gli sfidanti.

Duca

La fine di un'epoca

Concediamo le attenuanti generiche (il Brasile giocava in casa di fronte all'imperativo della vittoria) e specifiche (la Spagna è giunta alla finale non alle medesime condizioni di riposo e climatiche). Paghiamo la gabella allo scetticismo sul valore intrinseco della Conf Cup. E non sopravvalutiamo 90 minuti di bel calcio. Ma è stata una partita epocale, a mio avviso. L'equivalente, tra nazionali, di Bayern - Barcelona del 23 aprile scorso [vedi]. Epocale perché segna la fine dell'imbattibilità, e soprattutto dell'aura della Roja. Provo ad argomentare - in breve - in attesa di leggere commenti più autorevoli.

30 giugno 2013, Estadio do Maracana, Rio de Janeiro
Le menti: Carlos Alberto Parreira abbraccia Luiz Felipe Scolari
L'artefice della grande partita di ieri sera è stato a mio avviso Carlos Alberto Parreira, il tattico, l'intellettuale della coppia che guida la Seleção. Noi vediamo Luiz Felipe Scolari sbracciarsi, alzare la voce e tenere le conferenze stampa, ma le scelte e gli assetti sono decisi in coppia: poi Felipao assume la guida in campo. Parreira è uno dei più grandi uomini di calcio viventi; tra i santoni è a livello del nostro Righetto, per intenderci. Per dirne solo una: nel 2003, in un seminario organizzato dalla FIFA preconizzò l'evoluzione tattica verso il 4-6-0, poi inveratosi nella Spagna 2012 [fonte]. Non è un visionario, ma uno studioso. Due giorni fa si era detto fiducioso di poter battere la Spagna: "Com vontade, determinação e inteligência, a Espanha pode ser batida" [leggi]. E così è stato. Con lo studio, la didattica e l'applicazione dei giocatori.

Il Brasile non ha giocato secondo tradizione ("jogo bonito" e amenità del genere), ma secondo i dettami più avanzati del calcio attuale. Ha giocato all'europea. Meglio: come il Bayern di Heynkes, che è stato evidentemente ben studiato, vivisezionato e illustrato ai giovani verdeoro. La prima mezz'ora è stata tra le più belle della stagione 2013. La fase difensiva cominciava da Fred, Neymar e Hulk, che impedivano alla Spagna di avviare il gioco nella sua metà campo: un pressing spettacolare [che si può rivedere qui]. Appena gli iberici perdevano palla scattava una ripartenza fulminea, travolgente. Fred ha giocato come Mario Mandžukić, una partita impressionate, da area ad area. Anche Neymar ha smesso i panni del fenomeno per assumere quelli del campione. Si è fatto un mazzo in mezzo al campo, e ha segnato un gol per il quale Paolo Condò ha scomodato nientemeno che il paragone con l'"artistica violenza" del regista John Woo e del "suo iper-realismo": che, in effetti, ha fatto secco Casillas.

Il braccio: Neymar "John Woo" ha appena stecchito Iker Casillas
I campioni del mondo si sono battuti senza risparmio, va riconosciuto. A parte il rigore sprecato malamente da Ramos e il "gol" di David Luiz a fine primo tempo (era gol fatto di Pedro), ricordo che Villa ha esaltato due volte nei venti minuti finali i riflessi felini di Julio Cesar. Poteva finire 6:0 come 3:3, anche se il risultato finale - l'impressione complessiva - è stata quella di una superiorità netta del Brasile.

La partita - oltre che molto bella - segna un punto di discontinuità: la Roja è battibile. Ad Euro 2012, dapprima l'Italia dei gironi (con il muro di centrocampisti) e poi il Portogallo della semifinale (con un pressing asfissiante) avevano mostrato la via. Studiando il Bayern (e anche il Borussia di Kloppo) contro le due regine spagnole, Parreira e Scolari hanno trovato l'assetto capace non solo di inibire ma anche di soverchiare il gioco degli spagnoli.

Per i campioni del mondo si apre il problema del ricambio generazionale (Casillas e Xavi costituiranno lo snodo più delicato, a occhio) per provare a rilanciare la supremazia che dura dal 2008. Il grande merito della coppia di CT brasiliani è stato di quello di aver trasformato - in cinque sole partite, sfruttando al massimo le potenzialità che offriva il torneo - una raccolta di belle figurine in una squadra. Certo non ancora invincibile, certo ancora perfettibile, ma capace di superare in un filotto Italia, Uruguay e Spagna. In casa, ok. Ma lo sarà anche tra 12 mesi ...

Azor