30 luglio 2012

Figlio di un dio minore

Sbaglieremmo a considerare in modo adeguato i tornei olimpici di calcio se li ritenessimo una manifestazione che rispecchia il valore assoluto dei movimenti calcistici nazionali.

A ben vedere non lo sono nemmeno i campionati mondiali, per la partecipazione garantita a livello politico (soprattutto da quando il numero delle squadre partecipanti è stato portato a 32, con la riduzione della componente europea) anche a nazioni povere di tradizioni e quasi sempre protagoniste di prestazioni tecniche assai modeste. Solo i campionati europei si avvicinano al top, soprattutto nelle edizioni limitate a 16 squadre (e purtroppo, in futuro, non sarà più così per la bulimia affaristico-elettorale). Il più recente, in Polonia e Ucraina, sarà ricordato come uno dei tornei qualitativamente più rilevanti della storia, per il rango delle partecipanti (c'era persino l'Inghilterra ...) e per la connotazione culturale votata alla ricerca del gioco (le semifinaliste, forse con la parziale eccezione del Portogallo, hanno mostrato tutte una qualità tecnica, estetica ed agonistica di alto livello, raramente riscontrabile nel complesso in altri tornei internazionale del passato).

Se dovessimo cioè ragionare in termini di valori assoluti, dovremmo vagheggiare un torneo di 12 squadre, di cui 3 sole sudamericane (Brasile, Argentina e Uruguay) più una wild card intercontinentale e le altre europee maggiori. Quello sarebbe davvero il torneo più importante e qualitativo in assoluto. Non è dunque questa la misura con cui dobbiamo guardare ai tornei olimpici. La loro specificità sta altrove ed è più politica - cioè più storica - che tecnica.

Facciamo proprio l'esempio del torneo britannico 2012 (la dizione londinese essendo restrittiva, dal momento che si gioca anche all'Hampden Park di Glasgow e al Millennium Stadium di Cardiff, oltre che a Coventry, Manchester e Newcastle). Nel rispetto dell'ideale (bello quanto retorico e astratto) dell'universalismo olimpico - si noti, una costruzione culturale novecentesca, che si è "inventata" una tradizione classica - non vi partecipano tutte le scuole calcistiche migliori ma una rappresentanza multicontinentale variegata ed eterogenea: 3 sole nazioni europee, 3 africane (in virtù della demografia "elettorale"), 2 sudamericane (per simmetria proporzionale alle tre europee), 2 nord e centroamericane (non lo si dice, ma è per avere presenti possibilmente gli USA), 3 asiatiche (per ragioni di business, essendo ormai l'area più ricca del mondo), 1 oceanica, la nazionale del paese ospitante e un'altra squadra africana o asiatica che viene decisa per spareggio (e sempre per evidenti motivi elettorali ed economici). Non è un caso che, da quando è in vigore questo formato, le grandi penalizzate siano le compagini europee, ed il torneo sia vinto ininterrottamente dal 1996 da squadre africane e sudamericane.

La rappresentanza europea è quest'anno affidata alla Bielorussia (che non ha mai partecipato a un Mondiale o a un Europeo, ma che ha il merito di avere eliminato nelle qualificazioni l'Italia), alla Svizzera (forte della multietnicità della compagine: come sappiamo l'Elvezia sa dosare sagacemente gli innesti migratori), alla Spagna (unica degna rappresentante della nobiltà eupallica del continente) e alla più artificiale ed improbabile delle compagini, la Gran Bretagna (un'entità storica in via di dissoluzione se, come pare, la Scozia il prossimo anno deciderà di separarsi per via referendaria dai barbari del sud), nella quale irlandesi e scozzesi si rifiutano da sempre di militare. Delle otto qualificate ai quarti di finale di Euro 2012 solo la Spagna e (insieme ai gallesi e in quanto paese ospitante) l'Inghilterra sono anche alle Olimpiadi.

1 ottobre 1988, Olympic Stadium, Seul
Romario affrontato da Viktor Losev nella finale tra Brasile e URSS


Questo spiega perché, soprattutto in Europa, il torneo olimpico non goda di grande interesse. Eppure basterebbe pensare che campione in carica è Leo Messi per mostrare che non si tratta di un torneo di scarso rilievo. La sua specificità sta, appunto, altrove. Innanzitutto, dalle olimpiadi di Barcellona del 1992, nella limitazione d'età: da vent'anni il torneo è in pratica una competizione mondiale under 23, con l'aggiunta (facoltativa) di tre fuori quota. In precedenza è stata invece l'ipocrisia del dilettantismo a penalizzare, e dunque a connotare specificamente, il torneo calcistico, sin dalla prime edizioni.

Per paradosso, se il barone Pierre De Coubertin non si fosse inventato il dilettantismo (che nell'antica Grecia, come ci dicono le fonti storiche, non esisteva: è tutto un parto della sua "mente liberty", come la riconobbe, già nel 1960, Pier Paolo Pasolini) oggi non avremmo probabilmente i campionati del mondo. Fu la FIFA, infatti, a decidere di organizzare una propria competizione a livello mondiale quando il CIO decise di non ammettere il calcio nell'edizione di Los Angeles del 1932, ufficialmente perché sport non conosciuto negli States, ma in realtà perché ormai orientato al professionismo tanto in Europa quanto in Sud America. Da allora la FIFA ha sempre operato per evitare che le Olimpiadi potessero duplicare e fare ombra al torneo mondiale. Per molti decenni la questione del professionismo le è stata d'aiuto, segnando un limite giuridico tra le due competizioni, a costo di immolare per trent'anni all'altare del professionismo di stato sovietico l'egemonia dei paesi dell'est sul torneo pedatorio olimpico.

Non a caso, quando il CIO nel 1984 si arrese all'evidente anacronismo del dilettantismo, ammettendo ai giochi anche ricchissimi professionisti come i tennisti o le stelle della NBA, la FIFA dovette affrontare il problema di evitare che il torneo olimpico potesse fare ombra e insidiare la centralità dei campionati mondiali. Dapprima fu tentata la strada della limitazione della partecipazione ai giocatori che non avessero mai giocato, nemmeno nelle qualificazioni, ai Mondiali (e questo portò, per esempio, l'Italia alla storica disfatta con lo Zambia, 0:4, nel 1988, con Tacconi, Tassotti, Mauro e Virdis, tra gli altri). Fu poi adottata la formula attuale under 23 - che, ad nobilationem, potremmo chiamare il torneo delle giovani stelle -, che paga all'ideologia dell'universalismo olimpico la rinuncia a molte rappresentanze nazionali qualificate.

Queste dunque - in breve - le specificità del torneo olimpico, che è sempre stato un po' figlio di un dio minore, come se Eupalla abbia dovuto arrendersi alle ipocrisie e agli interessi che governano il regno della pedata mondiale. Ciò non toglie che non possano esserne protagonisti i Messi, i Thiago Silva, i Cavani, o perfino Neymar e Lucas (il quale ultimo, sia detto en passant, sta a Destro come il mercato dei buoi internazionale sta a quello nostrale). In breve, se la media è modesta (e replica la noia pedatoria, muscolare e onanistica di molte partite dei mondiali maggiori), la qualità in assoluto non manca. Così come non mancano le ragioni per storicizzare il torneo [vedi] e per seguirlo con interesse, come non a caso fanno i pochi mezzi di informazione specializzata di qualità.

19 luglio 2012

Ibra giocondo

Da Roberto Longhi a Vittorio Sgarbi a Mino Raiola la critica d'arte appare effettivamente sempre meno rigorosa metodologicamente quanto pirotecnica. Mino il Grosso ha piazzato a Parigi un noto pezzo unico (per quanto ormai non più al top delle quotazioni), accompagnandolo con un'ardita metafora: "Adesso penso che a Parigi ci sia qualcosa in più da vedere oltre alla Monna Lisa. Ecco, pensate se un giorno i quadri più costosi al mondo venissero venduti, come la Gioconda. Ci sono persone che non possono che contemplare certe opere d'arte a distanza, senza dire una parola, e altre, come il Paris Saint Germain o il Manchester City, che possono permettersi di comprarle". La parte acquirente, che si affida alla mediazione di un noto esperto di ritratti, Leonardo Nascimento de Araújo, ha dichiarato: "abbiamo fatto il più grande affare della storia di questo club". Qui accanto l'opera in questione: un metissagge molto costoso, venduto all'ultima asta possibile. Vedremo quanto esornativo.


Ultim'ora
Approfondite ricerche hanno identificato la modella che ha posato per il ritratto: è una vecchia conoscenza dell'artista.

14 luglio 2012

E' così

19 giugno 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
I bambini di Chernobyl accolti dall'UEFA prima di Ucraina-Francia

13 luglio 2012

Les adieux

La smobilitazione dei campioni attuata dal Milan negli ultimi mesi e culminata nella vendita congiunta di Thiago Silva e Ibrahimovic al Paris Saint-Germain chiude un'epoca storica e non solo calcistica. La "discesa in campo" di Berlusconi (la seconda, dopo la mitologica guida tecnica dell'Edilnord, in cui riuscì perfino ad esonerare Marcello Dell'Utri perché troppo "catenacciaro" [fonte]) data ormai 26 anni: il tempo storico di una generazione, a tutti gli effetti. Che si conclude in maniera altrettanto spettacolare come era cominciata. Se ne sono andati, tutti insieme, a breve distanza da Kakà e Pirlo, Zambrotta, Nesta, Thiago Silva, Gattuso, Van Bommel, Aquilani, Seedorf, Inzaghi, Ibrahimovic. In pratica una formazione intera. Non ho memoria di qualcosa di analogo, di un finale di partita di questa dimensione qualitativa.

18 luglio 1986, Arena Civica, Milano
Lo sbarco della squadra dagli elicotteri per la presentazione
del Milan di Silvio Berlusconi. A condurre lo show fu Cesare Cadeo,
ma la foto svela il clima con cui fu accolto: pioggerellina, spalti non gremiti,
striscioni svolazzanti, nessuna maglietta coi colori sociali,
niente bandiere. Altri tempi: meno glamour
E' una stagione della nostra vita che si conclude. Lascio da parte le implicazioni politiche sul Caimano perché, pur non amandolo affatto, non ho mai condiviso la demonizzazione che ne ha fatto la Sinistra ossessionata. Anche i non milanisti non possono non ricordare i momenti alti e più belli di questo pezzo di storia del calcio: la rivoluzione epistemologica di Sacchi, la leggenda di Marco Van Basten, fuoriclasse come Franco Baresi e Paolo Maldini, alcune memorabili partite (la demolizione del Real Madrid, la finale di Capello ad Atene in cui uccellò il Barça guidato da Cruijff grazie anche a un capolavoro di Dejan Savićević, etc.), la grande stagione di Carletto Ancelotti con Nesta, Pirlo, Seedorf, Shevchenko, etc. Qualcosa di irripetibile. E di cui serberemo per sempre grata e ammirata memoria.

Il Milan di Mexes, Nocerino e Boateng è, indubbiamente, qualcosa che non merita nemmeno di essere comparato ai precedenti, arrivino o meno Tevez o Dzeko. Va dato merito a Berlusconi di aver cominciato con gli elicotteri e di aver chiuso il ciclo con un addio in massa altrettanto spettacolare. Uomo di spettacolo era, uomo di spettacolo rimane.

L'Europa sta impoverendosi e tornando rapidamente ai livelli di vita degli anni '70 e '80. Un ciclo depressivo che non può non toccare anche il calcio. La Premier ha debiti stellari e assisteremo a breve al crollo finanziario delle grandi squadre senza sceicchi (nei paraggi è intanto già scomparso il Rangers): il Liverpool è stato il primo a scendere le scale (tenuto su solo da quel grande allenatore che è Benitez), ora lo sta seguendo l'Arsenal e tra poco il Manchester United. Anche il Chelsea russo mostra qualche affanno. Solo il City sembra andare in senso opposto, ma vedremo per quanto ancora, perché tutto il movimento dovrà ridimensionarsi, perdendo appeal e dunque attirando meno investimenti. La Liga sta implodendo come la Spagna, Perez è in grossi guai finanziari come Berlusconi, le banche dal credito facile non erogheranno più alcun prestito, e la "legge Beckham" è stata abolita per tornare a fare pagare le tasse: in pratica non ci sarà mercato alcuno nonostante i mugugni di Mourinho. La Bundesliga sta apparentemente meglio per la riorganizzazione teutonica che si è data negli anni passati ma, come la Germania, sarà trascinata in basso (per ultima, ma lo sarà inesorabilmente) dalla crisi dell'Euro.

L'ultimo "top player" eco-sostenibile:
Gastón Ramírez, al più una bisvalida potenziale
La dico tutta: come in altri frangenti, noi stiamo dimostrando di essere un grande paese e stiamo gettando le basi per una ripartenza calcistica su nuove basi, economicamente sostenibili. Battistrada è stata la Juventus, che ha ridotto drasticamente gli stipendi (da ultimo potando anche quello di Del Piero, che pesava non tanto sui conti ma simbolicamente) e allestito una buona squadra puntando sul gioco e su giocatori italiani; lo stadio è importante, ma non è la panacea, è solo un elemento tra i molti per riavviare il ciclo su nuove basi. L'Inter, con un po' di ritardo, ha imboccato la stessa strada: si tagliano gli stipendi onerosi, perché i buchi di bilancio nascono da lì, senza guardare in faccia nessuno; la vendita di Etoo è stato il punto di non ritorno e adesso sono tutti sul mercato, a cominciare da Sneijder; si punta sui buoni giocatori e sul vivaio migliore d'Italia; ci si affida a quello che Mastro Arrigo ritiene il migliore tecnico della sua generazione; si sta per avviare la costruzione dello stadio (e, finalmente, proprio ieri anche il Parlamento della Repubblica ha battuto un colpo sulla questione). Dopo qualche rigurgito di grandeur ad uso mediatico, anche il Milan si sta avviando nella stessa direzione. La Roma degli Americani vende più che acquistare; De Laurentiis ha fatto un bel gruzzolo con Lavezzi; i Della Valle hanno chiuso la borsa e forse anche la bottega e vagheggiano la vendita di Jovetic (ma ho l'impressione che la Juve non farà movimenti oltre i 15-20 milioni, di fatto rinunciando al cosiddetto "top player" da oltre Manica: a naso direi che si fermerà a Ramirez).

Ma - attenzione - siamo i primi nell'Europa che conta ad andare a fare affari (senza l'organizzazione teutonica ma con lo spirito creativo che ci anima da tre millenni). Nessuno lo sottolinea, perché sono tutti a lamentarsi dell’“impoverimento”, ma, come sistema calcistico ci stiamo muovendo per primi con decisione e facendo un sacco di quattrini (e di risparmi): il bilancio import-export rischia di essere clamoroso a fine agosto. Stiamo vendendo nell'ultimo momento giusto, fin che ci sono ancora acquirenti. Le società che possono ancora acquistare sono pochissime (City, PSG, Anzhi, a un livello inferiore Chelsea, Malaga, Spartak Mosca [l’Inter ha rotto con Pazzini, che come tanti non ha capito il momento, quando questi ha rinunciato a 3,5 milioni per 5 anni, e 12 alla società nerazzurra]) e noi ci stiamo affrettando a vendere. Il prossimo anno, già a gennaio, potrebbe essere troppo tardi. Il mercato sarà per un bel pezzo di piccolo cabotaggio.

È dunque giusto chiedersi se il calcio che verrà sarà peggiore di quello passato. Certo, l'abbandono della scena da parte degli interpreti più qualitativi riduce la caratura tecnica. Ma la ricerca del buon calcio, del "Beautiful Game", è già in atto – sul modello spagnolo – a cominciare da Conte, Prandelli, Zeman ma anche Stramaccioni e Montella. Non c’è alternativa: rinunciare ai Pepe e puntare sui Verratti. Non potendo far arrivare da fuori i campioni occorrerà cercarli e crearli attraverso i vivai. L’Inter lo ha capito da tempo anche se poi non è altrettanto brava a tenere con sé i Bonucci, i Destro e i Faraoni. Le altre dovranno seguire l’esempio. Non per virtuosità o teutonica ponderazione, ma per necessità. Siamo probabilmente agli albori di un calcio eco-sostenibile.

Azor

12 luglio 2012

La sfera di cuoio

Ci risiamo. Finita la sbornia sportiva degli Europei siamo a segnalare le amenità del circo calcistico europeo. Non guardiamo in casa altrui (stanno come e forse peggio di noi), ma ai fatti di casa nostra. Ieri abbiamo assistito alle esternazioni del presidente juventino in merito ai trenta scudetti, a quanto vinceranno l'anno prossimo e a quanto se ne impipano allegramente delle regole imposte dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio. La settimana precedente abbiamo visto il presidente-proprietario del Napoli minacciare un giornalista di rifargli i connotati (per intenderci è quello che fa cinema e che vuole sfrattare Cinecittà, cancellandola, per farci un meraviglioso centro commerciale insieme all'amico suo, proprietario della squadra per cui faccio il tifo io, quello che per amore della cultura nazionale voleva restaurare il Colosseo). Un inizio confortante per la stagione che deve ancora iniziare, non c'è che dire.
Ma il problema secondo me è un altro. Stiamo assistendo a un declino del calcio che temo sia irreversibile almeno per i prossimi trent'anni. Io mi sono innamorato del gioco del calcio praticandolo con gli amici per strada. Giocavo, come molti miei coetanei e non solo, in una squadra locale, facevo agonismo ma non me ne fregava niente. Il veicolo dell'innamoramento era la strada, era la piazza. Credo sia questo il motivo per cui negli USA e in Australia il calcio non è popolare. Hanno strutture urbanistiche del tutto inadatte per giocarci a calcio. Provate voi a giocare a calcio nel centro di Manhattan o in una bella pianura dell'Idaho o sui monti del Colorado o a Camberra! Hai voglia a creare scuole calcio, i ragazzini non ci si appassionano. Il calcio è sport popolare ed è quella la radice del suo successo.
E ora che cosa sta accadendo nelle nostre città? In molte di esse le strade sono diventate monopolio di SUV e autobus turistici a due piani, quando va bene. Ci si avvicina al calcio ammirando le gesta di Lara e del suo calcio cibernetico o giocando a FIFA o a Pro Evolution Soccer.
Io la vedo buia, parecchio buia. Se non si torna alla passione e al divertimento non ne usciremo. Saremo condannati a vedere gli sceicchi, che stanno al calcio come io sto alla danza classica, comprare tutto e ammazzare una passione genuina.
Chissà, forse il calcio supererà anche questa, ma noi ce la faremo?

Cibali

11 luglio 2012

Stelle cadenti

Espressioni tipiche 1:
José Mourinho
Finiti gli europei - calcisticamente parlando una vera festa - si torna alla normalità. Alla droga del cosiddetto "calciomercato" quotidianamente spacciata dai fogli sportivi e non solo, si sommano gli squallidi comportamenti di alcuni fra i principali attori del circo.
Espressioni tipiche 2:
Andrea Agnelli
Mourinho che minaccia di malmenare una donna colpevole di aver detto "forza Barça" in sua presenza; il presidente della Juventus che ordina la scucitura delle stelle dalle maglie bianconere: "rifiutiamo il calcolo degli scudetti della FIGC". Gesta, gesti e parole ormai peggio che nauseanti, che meriterebbero provvedimenti più che commenti: per noi, documentano soprattutto una paurosa deriva antropologica e culturale cui, fortunatamente, il football sopravviverà.

Mans

5 luglio 2012

Ancora pensieri, ancora parole

(continua dal post precedente)
Die Deutsche Fußballnationalmannschaft
La nazionale multietnica tedesca
eliminata in semifinale a Euro 2012
Comincio a pensare che anche per i tedeschi si possa parlare di un caso clinico. Anche a loro manca da tempo il colpo del k.o. all’ultimo chilometro. Se non vinceranno il mondiale del 2014 la loro astinenza da successi internazionali diventerà la più lunga nell’età del calcio moderno, superiore ai 18 anni che intercorsero tra la vittoria mondiale del 1954 e quella europea del 1972. È dal 1996, infatti – CT colui che fece outing tra i primi, senza attendere il Pavone: il mitico Berti Vogts, l'unico ad aver vinto il campionato europeo sia da giocatore sia da allenatore –, che non vincono nulla (la Grecia, al confronto, vanta un titolo più fresco …): ci sono andati vicini nel 2002 e nel 2008, approdando per l’ennesima volta in finale, ma inutilmente. Eppure, teutonicamente, hanno cercato di porre rimedio alle magre subite (dopo il 4:1 che gli rifilammo a Firenze – così, a gratis, anche in amichevole – alla vigilia del mondiale 2006 erano precipitati al 22° posto del ranking FIFA) puntando sull’organizzazione di base (scuole e accademie) e sull’educazione dei giovani (investimenti colossali nei settori primavera): un progetto encomiabile, da paese “serio” (e lo dico – per una volta – senza ironia), ma i risultati non sono ancora arrivati, a dimostrazione che non è, di per sé, una strada sicura e che vale quanto l’improvvisazione in cui siamo invece maestri noi (che non siamo un paese serio ma solo un grande paese con la saggezza e la cultura di 3.000 anni alle spalle). Certo, per ben due volte recenti, ci hanno trovato sulla loro strada e hanno pagato dazio come sempre, ma non è colpa nostra se non riescono a vincere. C’è dell’altro, evidentemente.

La vocazione artistica di Franz Beckenbauer e Gerd Muller
qui colti mentre recitano in una pièce ambientata nelle Highlands
Con impegno, dopo la riunificazione del 1990 i teudisci hanno puntato sul politicamente corretto, accogliendo anche nelle casacche bianche i figli della globalizzazione (turchi, polacchi, ghanesi, spagnoli, etc.), e sul rigore organizzativo. Hanno puntato cioè su politica ed economia: strumenti inadeguati però, da soli, per uscire dalle crisi, come stiamo constatando in questi anni amari. Manca l’umanesimo, cioè: l’investimento in arte e in cultura. Ai ben nutriti ragazzoni alamanni attuali mi sembra che manchino del tutto quella verve creativa e quella genialità che colorò la grande epopea della nazionale guidata da Helmut Schoen: non rintraccio l’obliquità di un Gerd Muller e un Gunther Netzer, la spavalda gioventù di un Paul Breitner e un Uli Hoeness, nemmeno la maestosa dialettica di un Franz Beckenbauer. E non si tratta meramente di generazioni: qui è in gioco il contesto culturale. Nelle inamidate camicie di Jürgen Klinsmann e di Jogi Manicarrotolata vedo solo un ricercato perbenismo cool, lo sforzo di un popolo di accreditarsi come smart agli occhi di un mondo che continua a stimarlo senza amarlo. Ma non vedo alcun artigianato, solo un prêt-à-porter. È la cultura dei centri commerciali e degli snodi autostradali e aeroportuali: “non luoghi” senza radici. Molto lontani, ormai, dai centri storici delle città spagnole e italiane, dai quali sembra continuare a passare il presente e non solo il passato. Anche calcistico.

L'altra Europa

10 giugno 2012, Stadion Miejski, Poznan
Giovanni Trapattoni richiama all'ordine anche Nikica Jelavic
La classifica finale di Euro 2012 è elitaria, restauratrice: stavolta non ha ammesso ai ranghi di nobiltà né turchi, né russi, né greci o boemi. Non ha ammesso nemmeno, come è ovvio, i portoghesi. In realtà, devo fare mea culpa nei confronti del Circus do Portugal, che ritenevo che avrebbe recitato, come tante altre volte, un ruolo di secondo piano. Sono arrivati a una traversa dalla finale dopo avere imbrigliato come nessun altro gli spagnoli, ma è mancato loro, come sempre, qualcosa per vincere. È un qualcosa che hanno avuto, probabilmente, solo negli anni ’60 e che proveniva dal Mozambico: cioè un grande centravanti, Eusébio da Silva Ferreira. Da allora suppliscono all’assenza di un erede adeguato con l’onanismo del palleggio, e nemmeno la sopravvalutata Lara Croft è in grado di colmare la lacuna: dedizione tattica, un buon portiere, alcuni robusti ronzini a difesa, un bel centrocampo (Moutinho sugli altri) e poi il nulla davanti se non la soluzione individuale alla Ronaldo, che va bene una volta ma le altre tre fallisce. Mi ero invece fidato dei russi, perché a guidarli era uno straniero di quelli con esperienza e capacità: ma sono sprofondati nel loro oblomovismo, che solo il turgore sovietico era riuscito talora (benché poche volte) a vincere; se la giocheranno tutta nel 2018. Sembra essersi ormai cronicizzato, invece, il clima di banlieue che ha sostituito nello spogliatoio francese, e nei salotti intellettuali parigini, l’illusione della nazione multietnica alimentatasi mitologicamente intorno alle prodezze di Zidane, Thuram, Lizarazu, Djorkaeff e Deschamps: nel 2010 l’ammutinamento era stato guidato da Patrice Evra, stavolta il fallimento ha i tratti somatici di مير نصري‎; e non è un caso che Laurent Blanc abbia salutato la compagnia. Reso omaggio alle dignitose (nulla più) performance di greci, cechi, croati e ucraini – e rammentata con simpatia la gita alcolica della banda del Trap –, resta da dire dei tulipani appassiti olandesi, che hanno giocato il ruolo della nobile decaduta: più rileggo i nomi delle formazioni messe in campo più fatico, però, a trovarvi dei campioni; al più sono dei sopravvalutati mezzoni, eponimo tra i quali l’infausto Arjen Robben; il loro treno era passato in Sudafrica due anni fa e non sono stati capaci di salirci sopra.

Stelle cadenti
19 giugno 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
Due grandi flop di Euro 2012: Franck Ribery e Karim Benzema
Come ad ogni torneo, abbiamo visto scomparire nel buio cosmico, e talora nemmeno accendersi, un buon numero di stelle, stelline e presunte tali. Ogni nazionale sciorinava alla vigilia le sue. Ma la logica delle partite senza ritorno ogni quattro giorni è una falciatrice spietata che miete vittime di ogni rango e grado. Una cosa è tirar fuori qualche bella performance in eurovisione ogni due settimane durante le coppe stagionali, sostenuti da squadre multinazionali di club, altra invece prendere in mano compagini nazionali di minore caratura tecnica e aggiungere classe e temperamento non per 90 minuti ma per tre, quattro, cinque partite di seguito nel giro di 10-15 giorni. Sono pochi i grandi giocatori capaci di ergersi in questo agone: i campioni delle due finaliste e pochissimi altri. La delusione viene da giocatori navigati come Rosicky, Baros, Arshavin, Nani, Van Persie, Sneijder, Modric, Evra, Malouda, etc., dei quali i media cantano lodi sperticate per qualche numero fatto vedere tra Premier e Champions League, ma che – alle strette – mostrano tutti i loro limiti di personalità. E che dire poi di Rooney, Cech, Benzema, Ribery, Schweinsteiger, Gerrard, Terry, etc. e – se vogliamo – degli stessi Ronaldo e Ibrahimovic (complessivamente, anche loro, deludenti, aldilà di qualche numero ad usum nesciorum)? Semplicemente che sono dei giocatori sopravvalutati da tifosi e “addetti ai lavori” senza memoria e cultura storica. Nessuno di questi nomi ha il valore di una pentavalida, a mio avviso.

Valide e bisvalide
16 giugno 2012, Stadion Narodowy, Warszawa
Due belle conferme di Euro 2012: Roman Shirokov e Giorgos Samaras
In un calcio mediatizzato e globale come l’attuale, un torneo come questo non è più in grado, come avveniva invece in un passato anche abbastanza prossimo, di fare conoscere nuovi giocatori di talento, perché non esistono più gli sconosciuti. Nondimeno mi sono appuntato un po’ di nomi di pedatori che ho apprezzato per qualche giocata non episodica, per una qualche cifra di talento che comunque possiedono e hanno messo in mostra, pur senza assurgere tra i grandi protagonisti del torneo. Penso a Hubschman, Jiracek e Plasil, a Samaras e Salpigidis, a Blaszczykowski e Lewandowski, a Dzagoev e Shirokov, a Khron-Delhi, a Hummels e Reus, a Moutinho e Varela, a Mandzukic, a Bonucci, Marchisio e Cassano, a Young e Wellbeck, forse a Debuchy. Tra questi alcuni sono degli onesti pedatori, alcuni delle valide, forse due o tre delle bisvalide. Aggregati ai 23 elencati dall’UEFA (tra i quali sono i grandi protagonisti del torneo ma anche alcune effigi messe lì per motivi politici e di sponsor) ne vengono fuori due rose: una quarantina abbondante di giocatori, che è stato un piacere guardare e che hanno sodisfatto la mia lubrica passione di voyeur. Non mi sottraggo al giochino della formazione ideale e schiero: Casillas, Piqué, De Rossi e Ramos in difesa; Khedira, Xavi, Pirlo e Alba in mezzo; Silva, Balotelli e Iniesta davanti (e, si noti, non è un 3-4-3, ma un ortodosso 2-7-1).

Le regole del gioco
9 giugno 2012, Arena Lviv, Lviv
Stéphane Lannoy appioppa un bel cartellino giallo
a Hélder Postiga già al 13°
Credo che mai come in questa edizione la qualità del gioco, mediamente alta (come era anche nelle aspettative climatiche), sia stata aiutata dalla correttezza in campo dei giocatori e dalla politica arbitrale nel suo complesso. A parte la svista di Vad (che rischia comunque di costare cara), l’esperimento dei cinque arbitri ha funzionato bene, riducendo gli errori dei guardalinee sui fuorigioco a livelli accettabilissimi e inducendo i giocatori a non dare vita ai consueti teatrini sui calci da fermo, alle simulazioni e al gioco duro più disgustosi. È stata una boccata d’ossigeno rispetto alle pratiche indecorose di maleducazione e violenza che condiscono le partite nei campionati, soprattutto in quello italiano (dove una rimessa laterale assurge a questione di vita o di morte). A conferma che se la mano è ferma, perché ispirata dall’alto, i protagonisti (dai Pepe ai Busquets, dai Terry ai Nasri, dai Ramos ai Balotelli, etc.) si adeguano. Ne esce confermato anche che quando le nazioni ospitanti sono di secondo piano (dal 2008 è così) i favori arbitrali ai padroni di casa (di cui, per dire, il nostro Sergio Gonella si rese triste protagonista a Buenos Aires nel 1978) sono quasi impalpabili. Oggi si riunisce l'International Football Association Board che molto probabilmente comincerà a snaturare con la tecnologia il gioco più bello del mondo: ha ragione Platini, se cominci con la linea di porta poi la applicherai a tutto il resto. Temo che abbiamo appena assisto al canto del cigno di un’epoca.

Il futuro dell’Euro
Lo stadio destinato a ospitare la finale di Euro 2020 è già pronto
A Roi Michel non difetta certo l’intelligenza, ma non illudiamoci: è pur sempre un navigato gran figlio di buona mamma. Se su arbitri e tecnologia concordo, sulla riforma della formula della fase finale sono invece assai perplesso, anzi sono scorato perché colgo l’ineluttabilità delle motivazioni politiche ed economiche che la ispirano. In Francia tra quattro anni ci toccherà assistere, come ai Mondiali, a partite orrende tra mestissime mandrie di ronzini. Già nelle settimane scorse ci siamo dovuti sorbire spettacoli come Polonia-Grecia, Francia-Ucraina o gli allenamenti offerti dall’Irlanda. Immaginiamoci con 24 squadre in lizza (con Estoni, Scotti e Montenegrini e altre simili scuole calcistiche, se va bene) … Per non dire dei gironi di qualificazione in cui passeranno perfino le terze classificate e si giocheranno centinaia di partite non per selezionare il meglio ma solo per dimezzare le federazioni iscritte all’UEFA. Gli studiosi di storia delle istituzioni sanno bene che il processo di proliferazione e superfetazione di organismi e procedure è una linea di tendenza riscontrabile in tutte le epoche e in tutte le società sostenute da una crescita economica. Potremmo allora sperare che la crisi che ci affligge – che ha caratteri più strutturali che congiunturali – induca a contenere il barocchismo delle manifestazioni pedatorie continentali. Ma Roi Michel è più furbo del diavolo, e ha già architettato la ricetta per il 2020: non più uno o due paesi organizzatori (con la greppia dei finanziamenti infrastrutturali, ormai sempre più difficile da sostenere e soprattutto da giustificare) ma 12 città con grandi stadi già belli pronti in giro per l’Europa in cui far disputare il torneo, lasciando che le squadre restino nelle loro Coverciano e si muovano il giorno prima delle partite, su scali facilmente raggiungibili, come già fanno nei week end di qualificazione. Provo a immaginare le città: Lisbona, Madrid, Barcellona, Parigi, Londra, Manchester, Amsterdam, Berlino, Monaco, Milano, Roma e Vienna (ma bussano anche Bucarest, Atene, Kiev e Warsavia …). La cosa ha un suo fascino, non lo nascondo. Vedremo, e rimettiamoci alla provvidenza di Eupalla.

Intanto riassaporiamo nella memoria, prima di darci all’oppio dei popoli e alla sagre estive (segnalo peraltro che la Champions League è già partita avantieri …), i momenti più belli di questa bella edizione.

Azor

4 luglio 2012

Pensieri e parole

Flash
9 giugno 2012, Arena Lviv, Lviv
Joao "moto perpetuo" Moutinho in pressing
su Bastian Schweinsteiger
Se ripenso al bel torneo appena trascorso ci sono alcune immagini che mi tornano per prime alla mente. Innanzitutto l'assist rasoterra di Xavi nel secondo gol della Roja in finale, un segmento di lancinante bellezza della linea retta della sua classe infinita: Alba si è voltato una volta verso il Catedratico nella sua volata di 50 metri, solo per essere sicuro del triangolo, e poi si è infilato alla cieca tra Barzagli e Bonucci sicuro di vedersi recapitare la palla sui piedi dalla spalle, puntuale come ad un appuntamento. E poi il bolide con cui Mario ha lasciato di sale non solo Neuer ma i suoi detrattori: la delicatezza con cui ha toccato, una sola volta, la palla lanciata da Montolivo prendendo la rincorsa, e la forza, il marchio d’autore, con cui ha colpito il pallone. Il cucchiaio di Pirlo, naturalmente: di cui ho soprattutto apprezzato il valore psicologico (perché il rigore di Panenka rimane inimitabile, se non altro per la rincorsa veloce e lunghissima che contrappose alla lentezza balistica). E, ancora, la zampata con cui Samaras ha insaccato (meglio, ha cacciato in rete), con determinazione non solo agonistica ma politica, la palla del pareggio provvisorio in una gara asimmetrica segnata in partenza e nondimeno combattuta fino ai limiti delle capacità. La doppietta aerea con cui Shevchenko ha fatto sognare, nel suo stadio, un intero paese. Il pressing inesausto di Joao Moutinho, un moto perpetuo tattico, un martello pneumatico agonistico. Il gol bellissimo di Pavlyuchenko contro i cechi. L’orrenda partita tra Spagna e Francia, probabilmente la più brutta di tutto il torneo. L’angoscia crescente di fonte allo sforzo inane, e nel secondo tempo supplementare di disperata dedizione, degli Azzurri contro l’Inghilterra. Le parate di Casillas in tutto il torneo, senza una sbavatura: una quadreria d’autore.

La Roja
1 luglio 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
I titolari della Spagna tricampione d'Europa
Ne abbiamo già cominciato a parlare e immagino che continueremo a farlo. Constato solo come abbiamo avuto la fortuna in questi anni di poter ammirare due grandissime squadre: il Barcellona del Pep e la nazionale spagnola pluri campeón. E' forse un po' ozioso chiedersi se sia o meno la squadra più bella e più forte della storia del calcio: è certamente tra le più forti perché una serie del genere è avvicinabile solo a quelle, agli albori della modernità, dell’Uruguay inventore del gioco corto (Olimpiadi 1924-1928 e Mondiale 1930), o dell’Italia del “metodo” di Vittorio Pozzo (Mondiali 1934-1938 e Olimpiadi 1936, ma anche le Coppe Internazionali del 1930 e 1935 contro il Wunderteam austriaco); quanto a bellezza la Roja 2008-2012 sta certamente nello stesso pantheon con la Aranycsapat magiara 1950-1954, il Brasile 1970, l’Olanda 1974-1978, la Germania 1972-1974, e forse anche il Brasile 1982. Così come è un po' tartufesco, a mio avviso, ricondurre il tutto alla eccezionale generazione di campioni fiorita in questi anni. A fare una grande squadra sono certamente i giocatori di qualità, ma non solo: vi concorrono anche altre componenti a cominciare dagli allenatori, dalla tradizione e dalla cultura calcistica del paese; e naturalmente la fortuna (nello specifico, gli errori dal dischetto di De Rossi e Di Natale nel 2008, la broccaggine di Robben nel 2010, la traversa di Alves nel 2012) premiata da Eupalla.

L’esondazione del centrocampo
1 luglio 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
La fase è difensiva, ma a opporsi ai difensori e agli attaccanti
italiani sono ben sei centrocampisti spagnoli
A fare una grande squadra concorre ovviamente anche il gioco. Non il modulo, ma la capacità di fare gioco. Se c’è una novità (per quanto relativa) emersa da Euro 2012 è certamente la conferma dell’investimento sui centrocampisti creativi, una strada già avviata dal Barça del Pep, ma che è ora conclamata e spinta fino alla definitiva rinuncia tattica al centravanti: quest'ultima, davvero, una rottura epistemologica che la storia ascriverà al pacato laboratorio di Vicente Del Bosque (sul merito del quale ho in animo di tornare con un intervento dedicato). Nel 4-6-0 metodologico della Roja si annidano sia il 4-3-3 effettivo, sia il 4-2-4 (di magiara e brasiliana memoria) di molte fasi in cui Xavi tendeva ad affiancare sulla stessa linea Fabregas. Resta il dato di fondo di una strategica rinuncia ai giocatori di sola corsa e/o rottura: ai Gattuso e ai Pepe, per intendersi, o alla fauna immensa dei giocatori di colore (e non solo) tutti uguali e di modesta tecnica che si è disseminata nei campi d’Europa senza apportare alcunché di aggiuntivo (rari essendo i Rijkaard, i Vieira o i Touré). E, al contrario, l’investimento in giocatori di qualità, in centrocampisti di tasso tecnico accertato, anche in ruoli tradizionalmente affidati a profili più ruvidi come quelli difensivi: la Roja che abbiamo ammirato ha giocato di fatto con un portiere, due difensori e otto centrocampisti. E non è una monade, ma comincia a fare proseliti, e annuncia probabilmente il calcio di élite che verrà: per alcuni un “tiki-takanaccio” noioso, per altri – quorum ego – un “proyecto de arte modernista” (uno 0-10-0 futurista).

I “piedi buoni” di Cesare
24 giugno 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
Alessandro Diamanti, uno dei pupilli di Cesare Prandelli,
esulta dopo aver segnato il rigore decisivo contro l'Inghilterra
Chi si è incamminato sulla medesima strada del gioco propositivo affidato a centrocampisti di qualità è il nostro Prandelli. Nella conferenza stampa di bilancio conclusivo, Cesare ha esplicitato la sua prospettiva morale e politica quando ha affermato – e come dargli torto? – che siamo “un paese vecchio, con idee vecchie e una mentalità vecchia, e non abbiamo voglia di cambiare”. Lui invece ha mostrato un percorso nuovo possibile, di rinnovamento culturale, puntando al risultato attraverso il gioco, come già hanno fatto altre grandi squadre e tradizioni calcistiche, da ultima la Roja. Nel gioco dei paragoni in pochi hanno ricordato il precedente di Fulvio Bernardini, che avviò da CT la ricostruzione dopo il Mondiale del 1974 (in cui, peraltro, perdemmo dalla Polonia e non dalla Slovacchia, pareggiammo con l’Argentina e non col Paraguay, e vincemmo con Haiti e non pareggiammo contro la Nuova Zelanda …) puntando a costruire una nazionale “dai piedi buoni”: così ha fatto Prandelli dopo il disastro combinato in Sud Africa da Lippi e dai suoi reduci. Tra i meriti di Cesare, oltre a quelli di cui abbiamo già scritto, è anche quello di saper essere, a un tempo, un selezionatore sagace (non ha lasciato a casa nessuno che abbiamo rimpianto) ma anche un allenatore capace di fare crescere la qualità dei suoi giocatori (dai Morfeo ai Diamanti): e su questo la Lega, che gli nega quattro giorni di stage, dovrebbe riflettere per il plusvalore di capitale che il lavoro di Prandelli ha apportato e potrà apportare in futuro (come sa bene Zamparini che tratta in queste ore su altre basi economiche la cessione di Balzaretti agli sceicchi parigini). Se vogliamo trovare un limite a Cesare è semmai la sua assenza di palmarès: non ha vinto nulla finora; il che non preclude che possa farlo in futuro, ma il dubbio è legittimo. Vi è come un’ombra di incompiutezza che grava sulla sua indubbia grandezza di maestro di calcio. Non penso tanto agli epiloghi coi Rangers o con Ovrebo, ma più semplicemente alle incertezze palesate in alcune sostituzioni enigmatiche di questo torneo e al mancato “coraggio” di mettere in campo per la finale una squadra fresca. La sensazione, che mi auguro evapori nella smentita, è che nell’ultimo chilometro il nostro Cesare perda lucidità.

La Benny Hill’s Club Band
Michel Serrault tra i suoi boys
All’Europeo 2012 erano presenti tutte le vincitrici dei tornei precedenti. E c’era pure l’Inghilterra. Se non esistesse, la nazionale britannica andrebbe infatti inventata: è uno spasso gaudioso assistere alle sue mirabolanti débâcles. Il caso è ormai clinico, e oggetto di una vastissima letteratura critica, cui cerchiamo di star dietro nella nostra Biblioteca. Anche in Ucraina (la Polonia non ha fatto in tempo a visitarla) il Magical Mistery Tour 2012 si è arenato mestamente come sempre. In un rigurgito d’orgoglio – che trasuda in analisi come quella di Keir Radnedge, prima firma mooolto british di “World soccer” [June 2012], che non manca di accusare Fabio Capello di non possedere un CV con esperienza di squadre nazionali (il Bisiaco, infatti, non solo ha espugnato Wembley nel 1973 in maglia azzurra, ma ha anche vinto tutto, purtroppo esclusivamente con le squadre di club) – la FA del nuovo corso ha ritenuto che fosse disdicevole che una nazionale del blasone di quella albionica continuasse a prezzolare managers foresti come Eriksson e Capello. Da qui la scelta di Benny Hill, il cui CV è apparso più adeguato avendo allenato nazionali di livello come Svizzera, Finlandia ed Emirati Arabi Uniti. Noi nerazzurri lo ricordiamo bene quando nelle conferenze stampa doppiava le comiche di Stanlio ed Ollio e anche perché con lungimiranza consigliò al líder Máximo la vendita di Roberto Carlos in favore di Felice Centofanti. Ad alcuni soci della Canottieri Tevere annidati in RAI piace molto perché curiosamente ricorda loro la controfigura di Ray Hudson (a me pare in realtà una vecchia spassosa come Michel Serrault ne La cage aux follestraduction littéraire: “La gabbia delle checche”). Fatto sta, con un 4-4-2 ben organizzato e pulito, Roy Hodgson ha messo su un ammirevole catenaccio con cui rischiava di fare fuori pure noi maestri nell’arte: il che, oltre che disdicevole, sarebbe stato paradossale. Mi auguro piuttosto che RH riesca a qualificare i Leoni d’Inghilterra per i mondiali del 2014: avremmo modo così di farci altre quattro risate anche allora. Non vorrei sembrare come al solito qualunquista, ma la questione è molto più semplice di come appaia: il livello del calcio nazionale inglese è, da sempre, sopravvalutato; la sua reale consistenza è di seconda fascia, a livello della Svizzera quando va male, della brillante Olanda quando va bene. Con un’ardua metafora, è come se allo snobbistico club delle democrazie internazionali noi rivendicassimo un posto fisso e d’onore perché abbiamo sperimentato ottocento anni fa la “democrazia” nelle città comunali, quando in realtà la nostra storia è fatta soprattutto di principi e di signori. Gli inglesi hanno “re-inventato” (come sottolineava Gioanbrerafucarlo) il calcio, ma non lo sanno giocare bene. Tout simplement.

Azor

2 luglio 2012

Classifica finale di Euro 2012

1° - Spagna, 14 punti (12 gol fatti/1 subito)
2° - Italia, 9 punti (6/7)

3° - Germania, 12 punti (9/4)
4° - Portogallo, 10 punti (6/4)

5° - Inghilterra, 8 (5/3)
6° - Repubblica ceca, 6 punti (4/6)
7° - Grecia, 4 punti (5/7)
8° - Francia, 4 punti (3/5)

9° - Russia, 4 punti (5/3)
10° - Croazia, 4 (4/3)
11° - Svezia, 3 (5/5)
12° - Danimarca, 3 (4/5)
13° - Ucraina: 3 (2/4)
14° - Polonia: 2 (2/3)
15° - Olanda: 0 (2/5)
16° - Irlanda: 0 (1/9)

Senza se e senza ma

Scrivo al buio senza avere letto i commenti della nostra Coffee House e tantomeno quelli della stampa. E scrivo in breve, riservandomi nei prossimi giorni analisi più meditate.

Innanzitutto mi voglio prendere in giro. Ieri mattina avevo scritto che la Spagna mi sembrava in calo di condizione e noi in crescita, che il loro gioco aveva ormai mostrato tutti i suoi limiti e che non contemplava cross per colpi di testa (peraltro ho letto anche di peggio tra i cosiddetti "addetti ai lavori", uno per tutti Mario Sconcerti, che aveva addirittura parlato di Spagna logora, senza pensiero del gol: "finalmente si gioca alla pari"). Ieri sera la Spagna ha giocato da par suo, noi siamo crollati atleticamente e il primo gol è arrivato di testa da uno dei nani della squadra ... Il calcio è meraviglioso proprio per questo.

1 luglio 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
Qui oggi voglio solo argomentare intorno a due temi. E' lecito rammaricarsi per la finale di ieri: in altre condizioni fisiche, di calendario e di logistica avremmo potuto giocarcela come a Gdansk. Ma non è lecito parlare di delusione: la Spagna ci è superiore, come aveva mostrato a Danzica e come ha ribadito a Kiev. Il risultato di ieri sera è eccessivo, umiliante (e comprendo le lacrime di rabbia di Bonucci), ma è ineccepibile: come non hanno fatto biscotti così ci hanno martellato fino all'ultimo minuto. Da grande squadra, sulla cui epocalità torneremo certamente.

Altro punto: Cesare nostro non ha fatto miracoli, attenzione. Ha fatto un capolavoro di sapienza e conoscenza. Non c'è nulla di inatteso e di improvvisato in un risultato di grandissimo rilievo come quello che ha ottenuto. Le vittorie su Germania, Inghilterra e Irlanda, la bella partita iniziale con la Spagna, lo stretto pareggio con i Croati, non sono un miracolo ma un'opera di grande artigianato, il risultato conseguente all'impegno, alla preparazione e alla qualità messa in gioco. In fase di pronostico avevo rubricato l'Italia tra le incognite, ma non tra le sorprese. L'incognita era solo quella di vedere se Cesare sarebbe stato in grado di raccogliere i frutti delle belle partite giocate e propositive delle qualificazioni. Lo è stato e gli va dato merito, perché ci ha riportati dalle bassezze lippiane del Sud Africa ai vertici del calcio mondiale, facendo vedere un bellissimo gioco. Ha restituito dignità al nostro paese come, su altri piani, sta facendo il prof. Monti.

Dobbiamo dunque essere grati, molti grati, a Prandelli e ai suoi ragazzi. Senza se e senza ma.

Azor

La squadra che diventerà leggenda

Dunque siamo arrivati all'epilogo di questo euro-torneo. Un campionato onesto, per la qualità del gioco, per le prestazioni arbitrali, per le gerarchie che i risultati hanno prodotto. Di alcuni ingredienti ormai abituali del football e delle sue competizioni per squadre di club non abbiamo sentito la mancanza; l'aria è molto più respirabile, quando nei dintorni non c'è lo sfasciacarrozze e le sue odiose polemiche (dopo la designazione arbitrale di Spagna-Portogallo dev'essere però stato lui a movimentare la scena, da dietro le quinte), tanto per dire. Oltre il luccichìo delle squadre imbastardite e montate coi quattrini di potentati petroliferi emiri sceicchi e maraja, dietro la logica dei dream-team pseudo galattici, sopravvive un calcio tradizionale, più lento e televisivamente meno appetibile, ma ancora capace di appassionare nel confronto fra scuole e culture e nella scoperta delle novità, nel loro progredire e nel loro regredire. In questo tipo di confronto, siamo stati come sempre (o quasi sempre) capaci di galleggiare, arrivando a una finale difficilmente pronosticabile. E’ stato un finale di partita, più che una partita di finale; anzi, abbiamo visto solo i titoli di coda del meno spettacolare kolossal iberico-barcellonista del quadriennio; alla sesta epifania sui campi ucraino-polacchi, la più importante (forse, per loro, la sola importante), questi hanno ripreso festosamente a verticalizzare, mandando un chiaro, regale messaggio al colto e all’inclita. Un match difficilmente commentabile, soggetto come sarebbe a letture critiche che Prandelli non merita. L’Italia è stata battuta da una squadra destinata alla leggenda, come lo fu (in circostanze abbastanza simili) dal Brasile nel ’70; le lacrime di Bonucci mi ricordano quelle che versai in quella lontana sera d'estate: credevo non ai più 'grandi' (guarda che il Brasile è fortissimo, mi dicevano, abbiamo davvero poche speranze) ma ai miei sogni di bambino innamorato del gioco e di Gianni Rivera. Cesare rimane, ed è un’ottima notizia; ha dato un’impronta di gioco su cui potrà lavorare, con la sola incognita relativa alla qualità degli interpreti di cui potrà disporre, quando si tratterà di reimpostarne l'assetto senza più poter contare su Sant'Andrea Pirlo da Brescia. L’importante è comunque garantire una linea di continuità.

1 luglio 2012, Olimpiyskyi, Kyiv.
Silva, imbeccato da Fabregas, avvia la festa nel modo preferito 
dalla Roja: segnando a porta vuota
Si diceva della Spagna. Praticamente e come tutti sanno, nel modello di gioco che propone, un Barcellona in maglia roja; il Barça di questi anni sta alla Roja di questi anni come l’Ajax degli anni ’70 all’Arancia meccanica. Il confronto ci sta; l’Olanda aveva probabilmente una concorrenza più agguerrita (ma è un dato relativo), disputò due finali in trasferta che perse e anche malamente. Se l’Ajax di Cruijff è considerata ancora la football-machine più forte e spettacolare dell’era moderna, il Barça è andato oltre, non potendo prestare alla seleccion il proprio pedatore di maggior classe. Il Barça di Guardiola gioca da qualche anno in una dimensione temporale sfalsata; è l’annuncio del calcio che verrà, e le sue sconfitte sono frutto di circostanze casuali implicite nella natura del gioco, che è un mistero agonistico; chi non ama questo modello di calcio, si merita davvero quello isterico di Mourinho, che verrà presto rimosso dalla memoria collettiva. Così, nella stagione 2011-12, la Philarmonica ha perso quasi tutto (ha perso anche Guardiola), dando l'impressione d'essere ormai in fase calante, ma poi cambiando maglia ha alzato il secondo titolo europeo consecutivo. In quattro anni ha affrontato tutte le grandi tradizioni continentali (Germania, Italia, Russia, Olanda, Portogallo – è mancato un vis-à-vis con l’Inghilterra, purtroppo: colpa dell’Inghilterra), senza mai subire una rete nelle partite davvero decisive, a eliminazione diretta. Vincendole tutte. Un dominio assoluto, imbarazzante. Un ciclo impressionate, che diventerà – appunto – leggenda.

Mans

Chi s'accontenta gode

Cerco di farmi largo fra le maglie strette del garbuglio nervoso provocato dalla scioccante sconfitta di questa sera per riuscire a commentarla.

Peccato, perché ci avevo creduto sin dall'inizio. Peccato perché credo che, in fondo in fondo, ce lo meritassimo. E peccato perché questi sono treni che passano di rado e passano veloci, senza fermarsi. Saltarci sopra non è facile, ma è indispensabile per restare nella storia. Arrivare secondi significa diventare patrimonio di pochi. Vincere significa diventare patrimonio di tutti.

1 luglio 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
I più forti figli di Eupalla festeggiano lo storico triplete 
Sono sicuro che da domani Cesarone verrà impallinato dalle critiche di quegli stessi che di mestiere scrivono di calcio e che di calcio ci capiscono pochino pochino. Stasera, si dirà, ha sbagliato a schierare Chiellini (possibile che stesse bene prima della partita se al primo allungo ha spalancato le porte dell'area piccola a Fabregas?). Si dirà che ha sbagliato a mettere in campo Cassano dall'inizio (spento, anzi spentissimo sin dal primo minuto di gioco). Si dirà che ha sbagliato a togliere Cassano così presto, quando tutti sanno che il talento di Bari vecchia può accendersi e accendere la partita in qualsiasi momento e si dirà che ha sbagliato a operare il terzo cambio troppo in fretta esponendosi al rischio dell'infortunio e quindi dell'inferiorità numerica irrimediabile. Molti altri spenderanno parole a tonnellate e inchiostro a fiumi per analizzare i perché di una condizione atletica che è apparsa disastrosa, del tutto inadeguata per un appuntamento come questo. Tutte cose queste che appartengono alla sfera inutile del buonsenso.

Io credo che il buonsenso e le analisi marginali stasera c'entrino poco. L'unica cosa evidente, ma davvero molto evidente, è che la Spagna è terribilmente più forte. Più forte di noi, della Germania, della Francia. Più forte di tutti. Il modulo tattico che adottano è importante ma non è il punto. Se quel modulo lo adottassero altri allenatori, con altre squadre, anche molto forti, il risultato sarebbe perdente. Si può studiare una vita il modulo perfetto, ma questo avrà una sua concreta e felice realizzazione solo se in squadra si ha come difensore centrale Pique (uno che ha i piedi di gran lunga migliori di Marchisio) e Xabi Alonso, a centrocampo Iniesta (il più grande centrocampista, mezz'ala, seconda punta, raccattapalle e magazziniere del globo pedatorio) e Xavi (sul quale spendere parole di elogio è ormai un orpello alla splendida realtà sotto gli occhi di tutti) e Silva (moto perpetuo, piedi sopraffini, genio tattico), davanti Fabregas (che giocatore! Non sbaglia un movimento, altro che modulo! Questo anticipa di tre anni ogni singola intenzione dei difensori avversari e capisce perfettamente dove finirà sempre la palla del compagno). Gli altri sono ottimi giocatori, alcuni davvero forti, ma questi cinque sono i migliori del mondo, punto. Se li hai tutti contemporaneamente in squadra allora vinci ogni volta che vuoi vincere. Il Barcellona vince per questo motivo. Ha inventato un modulo che fosse il migliore per esaltare questi fenomeni assoluti (e fortuna nostra che Messi non gioca con la Spagna), ma dimenticare che si tratta di fenomeni assoluti significa, secondo me, non cogliere appieno le ragioni del nostro naufragio questa sera. Solo questi giocatori possono palleggiare a queste velocità. Gli altri se lo sognano. Io mi ero stufato del gioco orizzontale della Spagna e stasera che fanno? Nei primi dieci minuti ci massacrano verticalizzando la palla per ben cinque volte! Hanno giocato a un altro livello. E noi ci abbiamo provato. Siamo stati anche sfortunati, ma c'era poco da fare stasera.

La Spagna ci aveva illuso contro il Portogallo. Sembravano spenti, sgonfiati, incapaci di imporre il loro solito gioco. Era solo un gioco di prestigio, forse nemmeno troppo casuale. Credo che in parte avessero sottovalutato l'avversario e in parte Bento li avesse bloccati con un autentico capolavoro tattico. Noi il capolavoro tattico non lo abbiamo fatto. Forse il nostro europeo è finito a cinque minuti dal termine di Italia-Germania. Buffon lo aveva sospettato e si era infuriato. Ci siamo inconsciamente accontentati di un risultato comunque straordinario, visto come ci eravamo presentati in Polonia. I complimenti a questi ragazzi sono il minimo. Io li ringrazio davvero e ringrazio, con un misto di gratitudine e venerazione, Cesare Prandelli (voto 10), che ha costruito questo gruppo. Vero: è una Nazionale un po' troppo gobba (6 titolari su 11), ma c'è tanto del CT in questo gruppo e per fortuna si è visto. Credo che sia finalmente esploso Balotelli (voto 8), giocatore che può diventare ciò che vuole. Dipenderà solo da lui. Eupalla l'ha dotato abbastanza. Abbiamo visto che Montolivo (voto 6+) resterà sempre un mezzo-giocatore (per fortuna dall'anno prossimo non più con la maglia viola). Abbiamo avuto la conferma di Pirlo (voto 9) e di Buffon (voto 7), veri leader di questa squadra. Mi ha sorpreso Balzaretti (voto 7) e ho avuto la conferma che Abate è un gran giocatore di fascia (voto 7). Marchisio è bravo, ma sparisce troppo spesso dal gioco (voto 6). Chiellini è un grande giocatore, universale, fisicamente debordante, peccato per stasera, non meritava di sbagliare così sul primo gol della Spagna (voto 7). De Rossi è un gigante (voto 8 per tutto il torneo e 10 per le prime due partite giocate da centrale di difesa). Ottimi  i centrali, Barzagli (voto 7) e Bonucci (voto 6,5 per l'europeo e 10 per la sincerità e l'insistenza delle lacrime questa sera). Cassano (voto 6,5) ha pagato la stagione funestata dal gravissimo problema di salute che l'ha quasi ammazzato. Resta un grande giocatore e mi aspetto da lui altri tre anni di grande livello. Totò Di Natale ha sbagliato troppi gol facili. Non è da lui (voto 6). Una bella Nazionale che merita un voto alto: 8. L'importante è che si vada avanti su questa strada e che non ci si scordi il verminaio che abbiamo dietro la porta di casa. Lo scandalo scommesse dovrà essere affrontato col massimo rigore. Ai giovanissimi che si avvicinano al calcio bisogna insegnare che è un gioco magnifico, il più bello, ma che è e deve essere un gioco e che se non ci si diverte è meglio lasciar perdere. Insomma,  sono fiducioso per il futuro e intanto mi godo il presente.

Potevamo fare di più stasera? Credo di no. E ripeto che la condizione fisica non c'entra. Rigiocassimo dieci volte contro questa Spagna avendo il tempo per recuperare, ne perderemmo almeno otto. C'è poco da fare, sono i più forti. Stasera sono stati anche i più bravi.

Cibali

1 luglio 2012

Nell'attesa

Se Inghilterra vs Italia provocava riflessioni sulla palese inversione culturale delle rispettive tradizioni calcistiche - difesa a oltranza e contropiede gli albionici, possesso palla e iniziativa noi - la finale con la Spagna ripropone elementi già emersi in occasione della sfida del 10 giugno come anche spunti più generali.

Ci sono dati interessanti che emergono dalle statistiche del torneo. L'Italia è la squadra che ha corso di più (media km/giocatore) e che ha effettuato più tiri tra tutte le partecipanti. La Spagna quella che ha il maggiore possesso palla, ovviamente, e che ha subito meno gol in assoluto (uno solo, ma da noi). Alcuni commentatori hanno parlato di concretezza "italica" per la solidità e la sostanziale imperforabilità difensiva della Spagna, e di "spagnolizzazione" del nostro gioco per la sua proposizione insistita e per il possesso palla. Sono elementi evidenti, ma c'è anche dell'altro credo.

10 giugno 2012, Arena Gdansk, Gdansk
Totò Di Natale alla "scocca"
Mi pare che questo Europeo abbia messo a nudo i limiti di fondo, che poi sono tutt'uno con il loro approccio di metodo, del gioco della Spagna: il tiqui-taqua è finalizzato a blindare la partita innanzitutto in chiave difensiva, anche a costo di ridurre la propensione offensiva, che non ha come scopo il tiro a rete ma la ricerca dell'assist, dell'ultimo passaggio, fino all'orizzonte utopico, che solo talora si invera (come contro la Croazia), di entrare in porta col pallone. Questo spiega perché siano ormai inerziali la rinuncia al centravanti e lo schieramento del 4-6-0, con Fabregas "falso nueve" (era impressionante osservare la totale estraneità alla manovra di Negredo, risperimentato inutilmente contro la Francia). E questo spiega anche come non sia solo la qualità dei due centrali e del portiere a garantire la solidità difensiva ma pure il possesso palla e la ragnatela continua a centrocampo, che emula (ma in questo torneo non riuscendo a realizzarla) l'ormai storica (quanto grandiosa) transizione pressing-possesso del Barça di Guardiola (vale a dire la sua innovazione più straordinaria).

Un altro dato interessante emerso dal torneo è che sono arrivate in semifinale solo squadre che hanno in comune "il gioco 'giocato'" per dirla con Cesare, vale a dire il calcio attivo (per dirla alla Wilson), la proposizione del gioco. La squadre che hanno puntato sul controgioco - la "rivoluzionaria" Inghilterra, ma anche la Russia o l'Olanda a ben guardare - si sono perse per strada. Il mainstream attuale pare essere (fatta eccezione del Chelsea di Di Matteo) la qualità dei centrocampisti, il possesso palla, la costruzione della manovra.

Significativa, di conseguenza, è anche l'evaporazione dell'importanza dei moduli: si è visto un po' di tutto dal 4-4-2 al 4-3-3 al 3-5-2 al 4-2-3-1 al nostro attuale 4-3-1-2. Ma sono numeri: ciò che conta, come sempre peraltro, è l'atteggiamento (attivo o reattivo), la ricerca del possesso palla, la qualità degli interpreti. L'unica innovazione epistemologica è il 4-6-0, ma sarà da vedere se troverà adepti, soprattutto se la Spagna non dovesse trionfare alla fine. La curva innovativa è la sperimentazione diffusa di un'evoluzione qualitativa degli interpreti e del gioco affidata all'esondazione del centrocampo. Ed è l'Italia di Prandelli ad averla incarnata meglio di altre squadre: se ci riflettiamo bene, probabilmente la nostra nazionale non ha mai avuto un centrocampo della qualità di quello attuale, né nel 1968-1970, né nel 1978-1982, né nel 1990, né nel 1994-1996, né nel 2006-2008. Abbiamo avuto al più Rivera, Mazzola e De Sisti; Tardelli, Antognoni e Conti; ed eccellenze individuali come Giannini, Albertini, Donadoni, e Mancini e Baggino se vogliamo ascriverli ai middlefielders; ma mai tutti insieme 5/6 giocatori della qualità - e soprattutto dell'universalità - di Pirlo, De Rossi, Marchisio, Montolivo, Motta e dello stesso Nocerinho. Solo la Spagna ha la nostra qualità in mezzo al campo.

La sapienza di Cesare è quella di avere individuato e fatto maturare questa eccellenza generazionale senza rinunciare ai ruoli di attacco: nelle sue intenzioni era probabilmente quella di puntare su Pepito Rossi alla Messi (a scapito di chi? Mario o Sant'Antonio?), ma il dato di fondo è quello di un attaccante di ruolo e di peso (ma non un centravanti) come Balotelli e di un altro avanti più leggero e di maggiore fantasia come Cassano, Diamanti o Giovinco, cui si aggiunge il ricorso a Di Natale quando si creano spazi utili al contropiede (ed è significativo il mancato ricorso a Borini, e non solo perché senza esperienza). Alle spalle è la solita difesa all'italiana, solida, rocciosa, anche se certo non della qualità media di quelle del 1968-1970 e 1978-1982 (o di eccellenze individuali come Baresi, Maldini o Cannavaro). Lasciando perdere le inversioni, Cesare ha innovato nella tradizione, ha sviluppato soluzioni nuove senza recidere le radici culturali del nostro gioco.

10 giugno 2012, Arena Gdansk, Gdansk
Gigi Buffon dribbla El Niño Torres
Ieri sera ho rivisto la partita del 10 giugno. L'impressione è che loro ci siano stati superiori nel complesso dei 90 minuti. Il primo tempo lo abbiamo dominato noi tatticamente, siamo andati in vantaggio meritatamente, ma il pareggio ha aperto gli ultimi loro 20 minuti di predominio. In quell'ultimo spazio di partita noi abbiamo avuto due sole occasioni: Di Natale in spaccata alta su imbeccata di Giovinco e l'incursione finale di Marchisio. Loro qualcosa di più anche se mai di pericolosissimo. Osservati comparativamente, l'uno di fronte all'altro, i due possessi palla sono differenti: loro vanno per vie orizzontali, per allargarsi sui fianchi dell'avversario per provare a puntare in area palla al piede sulla linea di fondo, dilatare la maglia difensiva o al massimo per crossare delle palle basse velenose (il colpo di testa non è contemplato se non come soluzione casuale). Noi invece teniamo palla per verticalizzare sin dalla nostra trequarti (in questo è la matrice della nostra tradizione) appena si liberano varchi, e tendiamo a sfruttare poco le fasce per mancanza di interpreti adeguati nel ruolo. Palleggio orizzontale vs palleggio verticale, dunque. Confermato dalla statistica: 60 a 40 il possesso palla finale per la Spagna, con 18 tiri loro contro i nostri 10, ma 8 a 6 nello specchio della porta. Individualità: temo Iniesta, banalmente, che è stato anche allora il più pericoloso e che parte sempre dallo stesso punto (che oggi sarà sulle isosceli tra Abate, Barzagli e Marchisio); tra i nostri è Marchisio a proporsi come incursore nell'ultima mezzora (come abbiamo visto anche contro la Germania), e chissà che finalmente stasera non segni. Da allora però noi siamo cresciuti come tenuta atletica e come convinzione complessiva. Gli spagnoli invece sono sempre gli stessi, semmai con qualche pausa in più.

Ognuno faccia le sue scaramanzie ... Ormai ci siamo.

Azor