23 dicembre 2012

Desafio y fracaso

Iker Casillas in panchina a Málaga.
Tristezza, dolore, ricordi di serate migliori
Lo sfasciacarrozze sta evidentemente cercando di farsi cacciare. La miseria di trentatré punti dopo 17 giornate di Liga (col Barça che nonostante un mare di guai viaggia a ritmi impossibili), soli due più del Málaga (e passi), soli cinque più del Real Betis di Sevilla. La giornata di ieri tuttavia, più che per la sconfitta a Málaga  - negli HL si potranno apprezzare soprattutto uno spreco da emerito brocco di CR7 e una dozzinale reazione di Pepe, punita solo col giallo - passerà alla storia per l'accantonamento di Iker Casillas, che si è accomodato sul blanquillo del Rosaleda e s'è goduto la partita. Una provocazione: il portiere campione di Spagna, del mondo e bicampione d'Europa, capitano della Roja, migliore nel suo ruolo da anni, è ritenuto da Mou meno bravo di  Antonio Adán Garrido, classe 1985, una vita nelle giovanili dei Blancos, e in tutto tre gettoni di presenza in prima squadra dal 2009 a ieri. "Es una decisión técnica, del entrenador, que analiza la situación, los jugadores que están a disposición y elige su equipo para jugar. Es una decisión puramente técnica. Podéis inventar las historias que queráis, pero es una decisión técnica, nada más", ha detto Mou  in conferenza stampa. Il povero Adán naturalmente non ha colpe (ma sul primo gol subito, uno 'bravo' avrebbe fatto qualcosa di più),  e Mourinho invoca la mala suerte, le decisioni arbitrali (che naturalmente sono sempre contrarie ai suoi) e la mancanza di memoria storica ("Esto es fútbol. No soy un niño ni estoy aquí hace dos días. Sabemos que el fútbol no tiene memoria, que no cuenta el ayer, sino el hoy y no los títulos que has ganado"): con tutto quel che ha vinto (c'è qualcuno che lo dimentica?) trova sempre argomenti pretestuosamente forti. Ha anche aggiunto che non allenerà mai il Málaga (e ci sfugge perché dovrebbe andare in un club che l'Uefa ha escluso per un anno dalle competizioni europee per gli stipendi negati a giocatori e staff). Mou ha già sottolineato come la Liga non interessi più a nessuno, essendo il senso della stagione ormai ridotto per lui alle prossime sette partite di Champions League (ammesso che i suoi tristi e depressi pedatori siano in grado di arrivare fino a Wembley). Ma la sosta natalizia gli consentirà di preparare al meglio le prossime uscite di conigli dal cilindro. Li estrarrà forse proprio per evitare il rischio di giocarne solo due, e di naufragare inopinatamente  contro Sir Alex, probabilmente colui che l'alieno spera di poter rimpiazzare a fine stagione.

22 dicembre 2012, Estadio La Rosaleda, Málaga 
Liga, 17ma giornata
Málaga CF - Real Madrid CF 3:2 (0:0)
Tabellino e resoconto (sito ufficiale Real Madrid) | HL | Marca | As | Mundo Deportivo

Mans

21 dicembre 2012

Vent'anni dopo: rassegna stampa

A Gioanncarlo saranno di certo fischiate le orecchie, e forse anche girate le scatole. Però il ventennale è stato una festa. Repubblica ha stampato una selezione (ottima) di (propri) articoli (Parola di Brera); Maietti ha ri-pubblicato Il calciolinguaggio di Brera (uscì nel '76, ma era già stato riproposto dal medesimo anche in Com'era bello con Gianni Brera, del 2002). Altre ristampe di opere breriane sono sicuramente in cantiere. Purtroppo, pare abbandonato a se stesso El sitt del Gioânn Brera (fu Carlo): non più aggiornato dal 2001, contiene ormai troppi rimandi a materiali indisponibili. E lo stesso pare potersi dire per il sito dell'Associazione Amici di Gianni Brera, fondata nel 1995. Le carte depositate presso la Fondazione Mondadori nel 2011 sono "in corso di riordino" (vedi anche il video dell'annuncio). Una mostra è in programma a Pavia.

Anni '50: Gianni Brera palleggia sul prato dell'Arena Civica
di Milano, che a lui verrà intitolata nel 2002

Va rilevato come molti di coloro cui i vari quotidiani affidarono la stesura di un ricordo nel '92 sono a loro volta e nel frattempo passati a miglior vita: Giorgio Bocca, Beniamino Placido, Antonio Ghirelli, Oreste Del Buono, Giuseppe Signori, Enzo Bearzot, giusto per ricordarne alcuni.

Ecco una rassegna (non completa) di voci: raccolte ovviamente sul web, destinate ai quotidiani e non solo degli ultimi giorni.

Gigi Garanzini, Gianni Brera vent'anni dopo, video (Mediacenter de Il Sole 24 Ore): "Di Brera non si butta via davvero niente e non credo niente verrà mai buttato via" (come del maiale).

Dario Ceccarelli,  Vent'anni fa moriva Gianni Brera: grande polemista, reinventò il gergo calcistico (ma non capì il Milan di Sacchi)Il Sole 24Ore: "...e quella sua idea, un po' compiaciuta, che nulla cambia o cambierà. Abatini siamo e abatini restemo, secula secolorum, come direbbe il Maestro dando la benedizione agli adoranti seduti al desco".

Paolo Pagani, Gianni Brera, ricordando l'Ariosto plebeo della bassa, Sky.it: "Brera il Bassaiolo scriveva sprigionando afrori di strutto, fagioli lessi, pane grosso, sabbioni dell’Olona".

Sergio Meda, Un paio di mesi con Gianni Brera, Panorama: "L’arrivo, a fine ottobre 1976, di Gino Palumbo chiamato a dirigere La Gazzetta, impose l’uscita – lui diceva la buon’uscita – immediata di Brera che definiva il giornalista napoletano 'troppo per i miei gusti'. Com’è noto si erano presi a pugni (cominciò Palumbo) in tribuna stampa a Brescia. Di Palumbo, per altri un genio del giornalismo, aveva questa 'alta considerazione', reputandolo didascalico in eccesso. Chiarisco: ogni volta che c’era il derby di Milano scriveva sul Corriere e poi sul Corriere d’Informazione, il giornale della sera, le indicazioni per raggiungere lo stadio di San Siro. Brera diceva allora serio serio: 'prima o poi ripubblicherà l’alfabeto'.

Gianni Brera, 20 anni fa il calcio perdeva il suo cantore più grande, Il Messaggero, articolo non firmato: "... trasformò leggende di provincia in categorie universali. Come quando teorizzava l'atavica inferiorità fisica del popolo italico come fondamento di un unico, possibile gioco: il difensivismo, per uccellare l'avversario atleticamente più forte".

Gianni Mura e Giuseppe Smorto, C'è un campione in redazioneRepubblica.it, 'Punto e svirgola': "Ricordo una stupenda sfuriata di Scalfari in riunione. Forse non leggeva spesso Brera. Fatto sta che cominciò a declamare un pezzo di Gianni, pieno di Cippirimerlo e citazioni in latino. 'Ma questo è sport?' domandò. Gianni Rocca, il vicedirettore, cercava inutilmente di placarlo: 'Brera scrive sempre così'.

Gianni Clerici, La Repubblica, supplemento La domenica del 16 dicembre 2012 ("I taccuini di Brera"): "El Brera, mi el legi semper', mi dissero un numero di persone che, per l’umiltà economica degli italiani degli anni Cinquanta e seguenti, mai si erano potuti permettere altro che il giornale".

Tony Damascelli, molto polemico: Gianni Brera e la memoria cancellata, Il Giornale: "Leggendo in queste ore l'ennesimo ricordo di Brera mi è sembrato, come da tempo, che il grande maestro abbia esercitato il suo mestiere in esclusiva per la Repubblica, non avendo frequentato altri fogli, se non marginali, come la Gazzetta dello Sport, il Giorno, il Guerin Sportivo e, fra gli altri, quella specie di giornale che è appunto Il Giornale, ai giorni di Brera Il Giornale Nuovo, dove lo volle Indro Montanelli".

Stefano Olivari, Cosa rimane di BreraGuerin Sportivo: "Fra gli aspetti positivi del brerismo, quelli che sicuramente non sono rimasti sono lo studio della materia trattata (il Brera dell’atletica leggera è in questo senso esemplare) e soprattutto il senso critico".

Mans

Tecnomanzia europallica

Non sbaglia pronostici solo chi non li fa. Riprendo la massima breriana (una delle sue mille espressioni verbali di cui "siamo parlati" spesso senza saperlo) nel momento in cui accedo, con il panettone, anche alla tecnomanzia (idem come sopra) dei playoff delle coppe europee. Chi fa di mestiere lo storico sa bene perché il calcio sia mistero agonistico: imperscrutabile ex ante, interpretabile ex post, il passato non può predire il futuro. Ci separano 50-60 giorni dalle partite che andiamo a vaticinare, e le impressioni di queste ultime settimane certo non troveranno piena conferma tra due mesi. Ma questo è il fascino del gioco.

15 maggio 1968, Estadio Santiago Bernabéu, Madrid
David Sadler incorna in acrobazia aerea nel ritorno della
semifinale di Coppa dei campioni tra Manchester United e Real
Madrid che spalancherà agli inglesi le porte della finale
Vedi: Cineteca | Immagini | Immagini della gara di andata
Dunque cominciamo. Dall'alto. Squilibrio evidente, sulla carta, in Celtic-Juventus e in Milan-Barcellona: sarei stupito alquanto che le due teste di serie non accedessero, pur soffrendo qualcosa, ai quarti. Tendenzialmente più equilibrati gli altri confronti. Ronzinante Galatasaray-Schalke 04, con i toeschi apparentemente favoriti. Blasonato Arsenal-Bayern, anche qui con i bavaresi favoriti. Affascinante Shakhtar Donetsk-Borussia Dortmund, sempre con i teutonici favoriti. Più equilibrati mi paiono invece Valencia-PSG, dove potrebbe, alla fine, contare l'esperienza di Carletto nostro su Valverde. Di spessore tattico annunciato Porto-Malaga, davvero imperscrutabile a tutt'oggi. Fifty-fifty Real Madrid-Manchester Utd, che i baluba (idem come sopra) canteranno come possibile "finale anticipata" e che si propone più propriamente come il primo effettivo dentro/fuori tra grandi corazzate: dall'alto dei suoi otto trofei internazionali sir Alexander Chapman Ferguson potrà guardare sornione la tensione che divorerà José Mário dos Santos Mourinho Félix e le sue sole tre coppe; per i manchesteriani sarà routine di alto livello, per i Blancos è già un'ossessione. Aleggia ormai sullo Special One il monito di Béla Guttmann: "Il terzo anno è fatale". Ma l'allenatore neuronale potrebbe cavar fuori un altro dei suoi giochi di prestigio (insieme all'ungherese apolide è infatti anche Harry Houdini uno dei suoi "modelli condizionanti" come ci ha svelato Sandro Modeo [vedi]). Smazzo le carte e vedo che ai quarti andranno Juventus, PSG, Real, Borussia, Bayern, Porto, Galatasaray e Barcellona. Nota bene: inglesi azzerate. In verità vi dico.

La formula dell'Europa League prospetta invece, ai sedicesimi, anche gli accoppiamenti degli ottavi. La cosa ha qualche fascino. Gran blasone hanno, per esempio, gli incroci Ajax/Steaua - Sparta/Chelsea (6 coppe dei campioni complessive) e Leverkusen/Benfica - Dynamo/Bordeaux (con tre vincitrici di trofei continentali): Ajax-Chelsea ai quarti sarebbe una bella "finale anticipata", così come mi piacerebbe vedere gli sbiaditi eredi di Eusebio incrociare i bulloni con i muscolari prodi di Oleh Volodymyrovyč Blochin. A un livello inferiore si pongono gli ircocervi tra Tottenham/Lione - Inter/CFR Cluj e Basilea/Dnipro - Zenit/Liverpool: molto equilibrio tra Spurs e Les Gones (metto una fiche sui franzosi); avversario tostissimo per la mia Beneamata (il Cluj ha espugnato l'Old Trafford, ha fatto più punti del Milan nei gironi di Champions e non ha mai perso in trasferta), che rischia seriamente l'eliminazione (che poi parrà ai nesci "inopinata"); tra svizzeri e ucraini dico i primi; mentre Zenit vs Liverpool è forse la partita di maggior fascino del turno, con i russi favoriti. Nell'incrocio tra Stoccarda/Genk - Mönchengladbach/Lazio si ode un'eco lontana di anni settanta per il confronto tra gli eredi di Netzer e quelli di Chinaglia: dico Stoccarda e Lazio. Minor fascino propongono Napoli/Viktoria Plzen - BATE (che ho scoperto essere acronimo, di matrice sovietica, per Borisov Automobili Trattori ed Elettronica, in pratica una FIAT bielorussa)/Fenerbahçe (e dico Napule e turchi), Anzhi/Hannover - Newcastle/Metalist (e dico daghestani e albionici) e Levante/Olympiacos - Atlético/Rubin (e dico derby ispanico a marzo).

Questo emerge dal mio smazzo odierno: il 13 marzo vedremo quanto di veritiero ci sarà stato. Augh.

Azor

18 dicembre 2012

Vent'anni dopo

Sono passati vent'anni dalla morte di Gianni Brera. Aveva settantatré anni compiuti, quando schiantò su una strada secondaria della bassa, reduce da una cena con amici in trattoria di paese. Dopo un eterno girogavare fra redazioni, si era stabilizzato a La Repubblica. Firmò il suo ultimo (o penultimo) articolo per il giornale di lunedì 8 dicembre, a commento della dodicesima di andata del campionato di Serie A, stagione 1992-93. Le vittorie valevano ancora due punti; il Milan ("Sua Prepotenza") aveva impattato al Meazza con l'Udinese; sul campo allagato del Conero, il "flebile centrocampo dell'Inter" aveva fatto "lamentevole naufragio", e i bauscia tornavano a casa con zero punti e tre reti al passivo. "L'alma Juventus" era scesa a Firenze, e "riferiscono  le cronache sia stata sconfitta due volte: in campo e sugli spalti, dove i suoi irriconoscibili tifosi hanno trasmodato in nefandezze imperdonabili". Il Toro veniva fermato in casa dal Foggia: "induco da certe critiche che Mondonico del Torino abbia espresso il proprio disagio dirigendo a capocchia una squadra già di per sé mal composta ... il Foggia ha conquistato il suo primo punto esterno inducendo qualche critico a proclamare la propria ammirazione per Zeman, taumaturgo della zona e del podismo". Il terzo posto del Cagliari destava "grato stupore", pur riuscendo solo "fortunato eversore d'un Napoli pieno di rogne sinistre. Mazzone ha incantato per l' autoironia con cui ha dato conto della propria incredulità felice". E così via; a concludere, l'evocazione della sua (e nostra) divinità: "Avrei molto altro da dire su questo campionato di folli. Meglio chiudere e ingraziarsi Eupalla con sacrifici degni della sua natura divina. A terra siamo noi con le nostre vergogne".

Non fece in tempo a vedere il secondo e il terzo scudetto del Gran Bisiaco; a raccontare le stranezze del mundial americano. Non vide la maturità di Baggio, il triste declino di Diego, l'esplosione di Totti e Ronaldo, l'arrivo dei petrodollari russi, di Platini all'Uefa, l'epifania di Messi e molte altre cose, interessanti o meno. E viene sempre da chiedersi cos'avrebbe pensato dell'Inter di Mourinho o del Barça di Guardiola. In effetti è mancata, nell'ultimo ventennio, la voce-guida, il parametro essenziale: un po' come se le più grandi e importanti partite ci siano state restituite da una cronaca muta - nel migliore dei casi; in realtà, ha finito per predominare l'autismo urlato della critica tifosa e senza più finzioni militante (soprattutto televisiva), e le ultime buone firme di fronte a tanta inutile chiacchiera si sono volontariamente delocalizzate.

Il giorno dopo la sua morte, i quotidiani erano lenzuola di coccodrilli. Di interviste, ad amici e nemici o pseudo-nemici (Rivera soprattutto). Fu un coro unanime - apprezzamenti, nostalgia, ricordi -, e soprattutto tanto esercizio di bella scrittura (in calce ne riporto alcuni frammenti estrapolati). Dal ritratto collettivo che ne sortì - per certi aspetti del tutto scontato -, un tratto univoco e probabilmente veritiero spiccava, e riguardava la generosità esuberante dell'uomo. A noi rimane la generosità delle sue pagine sul football: in esse, certamente la sua pratica si poneva come antitetica alle teorie del gioco che sosteneva: a fronte del calcio pragmatico, utilitaristico, contratto che predicava, la sua prosa era infatti pura trasgressione del canone italico, era funambolica e fantasiosa, costantemente alla ricerca di innovazione; era avvolgente, a tutto campo.

Ci restano i suoi libri [raccolti nella nostra Sala Brera], e nessuno di essi pare davvero invecchiato: la monumentale Storia critica del calcio italiano, la biografia di Herrera, i pamphlet che qualche piccolo editore gli commissionava prima di un mondiale. Rispetto ai giovani scrittori britannici dei nostri giorni, la sua lettura delle relazioni tra calcio e fenomeni sociali era più 'sgamata', quasi che - ritenendole scontate - non valesse la pena di sottrarre spazio alla narrazione principale. Preferiva una visuale etno-antropologica a quella politica o sociologica, il che lo fa apparire ormai - almeno in questo - un po' ingenuo, un po' retrò. Ma l'immaginifica rappresentazione del mondo che più da vicino ha frequentato e conosciuto rimane insuperata e inimitabile, e non solo per la dimensione letteraria e per le innovazioni 'linguistiche'. E insuperata, nella sua sinteticità, resta la definizione che di lui offrì Umberto Eco: "Gianni Brera è Gadda spiegato al popolo".

* * *

Eravamo di quegli italiani che devono imparare l' italiano come una lingua non direi straniera, ma più alta e più grande, non solo nostra e dei nostri "pais", ma di tutti, di tutte le province e città. E questa fatica fu certamente più importante di tutte le nostre guerre e giri per il mondo e per le gazzette. Giovanni che aveva ambizioni letterarie più forti di tutto, del mestiere, del successo, del denaro direi delle stesse amicizie, ha amato la lingua più di ogni altra cosa al mondo e, siccome era uno che non solo la padroneggiava ma la inventava, soffriva pene io so amarissime e taglienti sentendo attorno a sé per molti anni la sufficienza di letteratucoli che non avevano un' oncia del suo talento prodigioso in quella musica che è il linguaggio (Giorgio Bocca)

E' la fine della fantasia, dell' estro. Ora resta solo il calcio normalizzato (Oreste del Buono)

Aveva visto tutto, dello sport, e ancora in tribuna puliva gli occhiali per non perdere niente, tra volute di fumo da pipa sempre più grandi e sorsate di whisky sempre più piccole (Gian Paolo Ormezzano)

Ci capivamo perché Brera era capace - quando voleva, quando decideva di farlo - di abbandonare questa sua 'mania' intepretativa, cioè l'attaccamento alla sua tesi, e di diventare obbiettivo, di riconoscere i suoi errori. E la tensione si scioglieva, magari a tavola, davanti a una buona bottiglia di Barbaresco che lui amava moltissimo (Gianni Rivera)

16 dicembre 2012

Geometrie euclidee


Parecchi anni fa, ai tempi del liceo (classico: Carducci, Milano), la professoressa di filosofia - che non capiva proprio nulla di calcio, ma appariva oltremodo incuriosita dalla mia devozione per i colori nerazzurri - mi domandò, per l'appunto filosoficamente, una definizione incontrovertibile del bello (calcistico, s'intende). Allora risposi - e risponderei tuttora - che il bello nel calcio consiste nel cacciare il pallone in fondo alla rete nel tempo più veloce possibile, vale a dire col minor numero di passaggi possibile - avevo in mente, com'è ovvio, i lanci di quaranta metri dell'inimitabile Luisito. La loica rimase molto stupita e mi obiettò che quel mio principio del minor numero di passaggi le pareva affatto contraddittorio al concetto stesso di un gioco di squadra e perciò collettivo. Credo di averle infine replicato che per il calcio vale il medesimo postulato della geometria euclidea: che tra due punti il collegamento più breve resta la linea retta (leggi Luisito-Jair-Mazzola), punto e basta.


Il dialoghetto filosofico mi viene in mente ogni volta che leggo magnificato l'insoffribile ticchetocchettare del Barcellona, coi suoi centomila passaggi, prima che il solito Messi provveda a chiudere la questione. Provate a immaginarvelo il Barcellona, senza quella specie di piccolo Hermes dalle caviglie alate, geniale e spiritato ...

Ci ho ripensato anche ieri sera, quando sentivo tante chiacchiere in tivvù sulla Beneamata e sulla sua "mancanza di gioco" - ritornello vecchio come il cucco (lo ripetevano anche l'anno del triplete) - a fronte delle armoniose geometrie laziali. Ma suvvia, dopo un primo tempo di giudiziosa e sparagnina attesa, fatta apposta per logorare gli avversari, cinque o sei limpide azioni in contra pedem si sono pur viste, nei secondi quarantacinque minuti, e che i tre punti siano infine andati alla Lazio fa parte del mistero buffo che Musa Eupalla governa con impareggiabile inventiva.

Ararat

12 dicembre 2012

Kleines dickes Müller

Al centro dell'attenzione del mondo, Leo Messi. Come sempre, o quasi sempre, quando al centro dell'attenzione del mondo del football c'è il football, prodezze e immaginazione, numeri e arte. La pulce non ha combinato cose in sé memorabili: ha solamente messo nella rete, all' Estadio Benito Villamarín di Sevilla, domenica 9 dicembre 2012, l'ottantacinquesimo e l'ottantaseiesimo pallone di questo anno solare. Ha dunque eguagliato e poi infranto, nel medesimo match, il record detenuto da Gerd Müller, dal bomber per antonomasia. 86 gol, di cui 12 (in 7 partite) realizzati con la maglia della nazionale argentina. 74 gol, dunque, in 60 partite fin qui disputate dal Barça nel 2012 (tra Liga, Champions, Copa del Rey, Supercoppa spagnola). I blaugrana hanno segnato, in quelle 60 partite, la bellezza di 160 reti. L'incidenza di Leo è altissima: segna quasi la metà dei gol della sua squadra (il 46 e rotti per cento). Müller aveva fissato il suo record nel 1972: 85 gol, di cui 13 (in 7 matches) realizzati con la maglia della nazionale tedesca. Il Bayern disputò in quell'anno solare 34 partite di Bundesliga, 4 di Coppa di Germania, 4 di Coppa delle coppe, 4 di Coppa dei campioni: in totale 46: 14 meno del Barça. Spero di non avere sbagliato i conti.

La logica dei numeri non ha fascino, e può talvolta generare valutazioni effimere. Ci sono pedatori che ne prescindono, altri la cui parabola agonistica può esserne scientificamente rappresentata. Gerd Müller è uno di questi. Basteranno pochi cenni a illustrare l'assioma. Gli è capitato di non gonfiare la rete in ventitré occasioni, su un totale di sessantadue apparizioni con la sua nazionale; di queste ventitré, solo sette contavano qualcosa. L'ultimo dei suoi sessantanove gol l'ha segnato nell'ultima partita, che era anche l'ultima e decisiva di un mondiale: naturalmente, fu quello decisivo (a Monaco, nel '74). Era il suo mestiere: risolvere le partite. Nel '70 risolse il quarto con gli inglesi, nell'extra-time; in semifinale fece all'Italia (sempre nei supplementari) il gol del 2:1 (sembrava finita per gli italiani) nonché (quando sembrava finita per i tedeschi) quello del 3:3. La fase finale degli europei disputata in Belgio nel '72 fu decisa da lui: doppietta ai padroni di casa in semifinale; doppietta in finale ai sovietici (ad aprire e a chiudere un inappellabile 3:0). I quali, peraltro, ne avevano già assaggiata la voracità tre settimane prima, nel match organizzato per consacrare l'Olympiastadion di Monaco: 4:1, e lui officiò mettendoli tutti e quattro alle spalle di Yevgeniy Vasilyevich Rudakov, estremo della Dinamo Kiev. Ai compagni non lasciò neanche le briciole: generosamente, poi, ammise al banchetto dell'Heysel un faticatore del Borussia (quello neroverde) senza particolari attitudini realizzative (Herbert Wimmer), giusto perché non si dicesse che voleva esagerare.

In sostanza: Messi è già una 'leggenda'. Certamente. Anzi, di più, una leggenda vivente. Ha vinto molto, non tutto. Anche Müller è pedatore di dimensione leggendaria e indiscutibile. Non si è limitato a vincere molto: ha vinto tutto quello che c'era da vincere, compreso quell'effimero riconoscimento individuale (il Ballon d'or) che non sempre ha premiato davvero i migliori. Lo vinse nel 1970; fu terzo nel '69 (dietro Rivera e Riva), secondo nel '72 (dietro il Kaiser), e ancora terzo nel '73 (dietro Cruijff e Zoff). Curiosamente, fu ignorato nel '74, l'anno del titolo mondiale teutonico (ma c'erano naturalmente Cruijff e Beckenbauer a dominare la scena). Più di 500 gol in partite ufficiali, poco meno di uno a partita, in quindici anni di carriera ad alto livello. Messi giocherà il doppio dei suoi match, difficilmente segnerà il doppio dei suoi gol; forse riuscirà - è un auspicio di molti, non di tutti - a sollevare la coppa del mondo, conquistandola grazie a una serie di prodezze mirabili e stravaganti, come fece Diego nell'86. Chissà: ha solo venticinque anni, e almeno tre appuntamenti possibili con i suoi sogni.

Il tedesco, per ora, guarda e attende che gli eventi facciano il loro corso. Fu un centravanti assolutamente archetipico: il rapinatore d'area, quello in grado di intuire traiettorie sporcate e di calamitare la sfera, sbucando fulmineo da mischie affollatissime e crude [vedi]. "You have to react quickly, or the chance is gone": parole di Gerhard ("Gerd") Müller; quel "Kleines dickes Müller" del 1964 che, in capo a un decennio, divenne per i tedeschi "der Bomber der Nation". Per la Germania e per la Baviera: "Alles, was der FC Bayern geworden ist, verdankt er Gerd Müller". Parola del Kaiser.

Vedi anche in Pentavalide

Mans

9 dicembre 2012

AS Roma - ACF Fiorentina 4:2

8 dicembre 2012, Stadio Olimpico, Roma
Francesco Totti - autore di un'ennesima prestazione memorabile - scocca il tiro del terzo gol
sotto gli occhi dell'ex Aquilani, nella più spettacolare (finora) delle partite di questo campionato
Tabellino | HL [2:59]

8 dicembre 2012

Verso un campionato europeo?

Con i primi freddi si è conclusa la stagione d’avvio delle coppe europee, occasione per qualche commento. Giustamente Mans ha messo in evidenza il marcato equilibrio che ha caratterizzato la fase a gironi di Champions, là dove – nella bella idea di conservare memoria, tra terzo e quarto turno, di un confronto ravvicinato di andata e ritorno – gli scontri di vertice avrebbero visto l’eliminazione ai 16esimi del Real Madrid e dell’Arsenal. Non saprei dire se si tratti un’edizione di transizione che porterà all'affermazione di outsider o se siano fuochi fatui destinati a ricomporsi in primavera nell'ordine gerarchico di questi ultimi anni (il tempo del Calcio dei ricchi, come scrive anche Mario Sconcerti). Certamente abbiamo visto alcune belle partite: su tutte – à mon avis – Real-City e Borussia-Real, più l’agone ambientale dell’Hampden Park nel 125° contro il Barça.

21 novembre 2012, Amsterdam ArenA, Amsterdam
Robert Lewandowski segna uno dei suoi due gol all'Ajax
L’impressione è che anno dopo anno, protagonisti e voyeurs, stiamo ormai interiorizzando l’idea che in autunno si giochi una sorta di campionato europeo, spesso molto più attraente della media delle ronzinanti partite di quelli nazionali (Malaga-Anderlecht 2:2 dell’altra sera, per dire, vale da sola tre tristi partite di campionato dell’Inter o del Milan attuali), in cui ci sta (ed è bello) che il Bate Borisov ne rifili tre al Bayern, che il Cluj espugni l’Old Trafford, o che il Nordsjaelland strappi l’unico suo punto con la Juve. In attesa, poi, della primavera che con le rondini porta anche i play off, dove il sapore antico delle competizioni notturne infrasettimanali si intreccia con i capricci di Eupalla. Non lo so, ma ho l’impressione che si stiano creando le basi per un vero e proprio campionato europeo a venire (riservato a 18/22 club), con le squadre B (il Barça B, l’Arsenal B, il Milan B) destinate alle serie locali. Mi spiego: siamo poi davvero tanto lontani da 34/38 mercoledì in cui l’Inter andrà a far visita o riceverà il Dortmund o l’Ajax (e non il Neftçi), mentre la sua squadra di giovani, invece che esibirsi a Baku, giocherà le domeniche con Atalanta, Catania, Sampdoria, etc.? Vedremo, ma sento vagamente nell'aria la cosa.

Ciò che vorrei intanto rimarcare è invece il ranking di questo inizio di stagione, in cui le squadre italiane sono terze alla pari con quelle inglesi, mentre le spagnole e le tedesche guidano il gruppo, e scivolano indietro le portoghesi. Nonostante la crisi e i debiti paurosi accumulati dai suoi club, la Spagna conferma che le vittorie ai mondiali e agli europei non sono solo il frutto di una generazione di campioni ma anche di una stagione felice del suo movimento: solo il Bilbao di Bielsa non ha passato il turno, mentre le altre 6 (4 in CL e 2 in EL) sì. Cappotto tedesco, con un impressionante 7 su 7. Le italiane erano quattro anni che non facevano così bene con 5 qualificate su 6: solo l’Udinese si è mostrata inadeguata non solo ai play-off estivi di CL ma anche alla EL. Le inglesi soffrono invece la retrocessione della detentrice, il Chelsea, il fallimento del City, e la sensazione di non esibire una squadra davvero forte in nessuna delle due competizioni.

18 settembre 2012, Parc des Princes, Parigi
Thiago Silva segna il secondo dei quattro gol rifilati alla Dinamo Kiev dal suo PSG
In Champions nessuna squadra ha vinto il proprio girone a punteggio pieno: meglio di tutte ha fatto il PSG (15 punti), che alla fin fine ha perso di misura solo a Oporto: Carletto nostro si dimostra tagliato per la CL, quanto invece non sembra esserlo il Mancio. Juventus, Bayern, Barcellona e Manchester United confermano il buon momento, in testa sia ai campionati sia ai gironi europei. Il Milan si qualifica con soli 8 punti, mentre restano fuori con 10 sia il Chelsea sia il Cluj. Imbattute sono Borussia, Juventus, Schalke e Malaga; il PSG è anche quella che ha preso meno gol (3), con Juventus e Porto a ridosso (4). Colpiscono le statistiche del Real, se pensiamo a chi lo guida: con 9 reti (4 dal Dortmund e 3 dal City) è la squadra che ha subito più gol, ma col Bayern è anche quella che ne ha segnate di più (15); soprattutto è quella che ha tirato più di tutte (120 di cui 74 in porta: segue la Juventus con 118 e 56, e 12 gol); un profilo, paradossalmente, “zemaniano”.

Mettendo nel canto le statistiche [vedi], l’impressione migliore l’hanno fatta il Borussia e la Juventus, considerata la difficoltà dei rispettivi gironi. Bene anche il Bayern. Opachi, per motivi diversi, il Barça e lo United. Sempre sul filo di una crisi, come ovvio, le esibizioni del Real. Bene PSG, Porto, Valencia e Shakhtar (i cui brasiliani – alla faccia degli alti lai della stampa beota – mi sembrano però degli onesti pedatori o poco più). Le delusioni vengono dal City e dallo Zenith. Il resto è condimento.

Suggestivo infine il pedigree delle qualificate ai 16esimi dell’Europa League, dagli alti blasoni in Inter, Ajax, Liverpool, Benfica, Steaua, Tottenham, Atletico Madrid, Napoli, Borussia Mönchengladbach, Lazio, Bayer Leverkusen, Newcastle (tutte vincitrici di almeno una coppa europea nella loro storia): ci andasse bene, potremmo gustarci dei bei quarti di finale dal sapore antico, magari una semifinale senza lattina tra gli eredi di Günter Netzer e Sandrino Mazzola … E riscattare così il pedatare muscolare e ronzinante mostrato nei sovraffollati giovedì di quest’autunno.

Rimando invece al sorteggio prenatalizio la riflessione tecnomantica, tra un panettone e un mandarino.

Azor

4 dicembre 2012

Un discorso brasiliano

Dobbiamo ringraziare Arthur Antunes Coimbra per aver concesso nuovamente i warholiani 15 minuti di notorietà mediatica a una delle più belle partite della storia delle coppe del mondo, ergo della storia del football: Italia-Brasile 3:2 del 5 luglio 1982. Con le sue dichiarazioni alla Soccerex Global Convention 2012 [vedi], Zico ha consentito di spezzare per qualche ora l’ininterrotto vociare della pedata nazionale su torti arbitrali e sudditanze psicologiche, costringendo i cronisti ad alzare il cellulare per interpellare qualche vecchio reduce di quel memorabile match. Prendiamo allora – come suol dirsi – la palla al balzo, e gettiamo in rete qualche considerazione di contesto e qualche coriandolo di memorie.

Arthur Antunes Coimbra in una partita del Mundial 1982
Cosa ha detto esattamente Arthur Coimbra? Andando alle fonti [vedi], individuiamo due ordini di discorso. Da un lato, un giudizio storico negativo: “If we had won that game, football would have been different. Instead, we started to create football based on getting the result at whatever cost, football based on breaking up the opposition's move, and based on fouling the opposition. That defeat for Brazil was not beneficial for world football. If we had scored five goals that day, Italy would have scored six as they always found a way of capitalising on our mistakes”. Dall’altro, una constatazione sullo stato attuale del calcio brasiliano (dal quale, si noti, Zico è “in esilio asiatico” ormai dal 1991): “Brazil is a fertile land for players but we have to change the mentality in the junior divisions of the clubs. I'm sure that if I went for a trial at a football club today, I would be rejected for being thin and small. You don't see Romario-type forwards in the youth divisions, (the centre forward) is always a big guy. That's where the deterioration of Brazilian football begins. Clubs are worried about winning titles in the junior categories, rather than developing players”.

Se si legge con attenzione, Zico traccia un nesso tra la sconfitta del Brasile 1982 e la successiva tendenza culturale del suo futebol a privilegiare il risultato attraverso giocatori fisici rispetto alla formazione di calciatori di qualità tecnica. È un discorso di carattere generale ma che ha come destinatario principale il movimento calcistico brasiliano, in un frangente difficile, all’indomani dell’inopinato esonero del CT della nazionale Mano Menezes che aveva faticosamente intrapreso un percorso di rinnovamento qualitativo della Seleção affidandosi ad alcuni giovani, talentuosi ma non ancora maturi, giocatori. Nei giorni in cui Zico ha rilasciato le sue dichiarazioni la scelta del successore di Menezes era ancora aperta a varie soluzioni, la più fantomatica  delle quali era la candidatura di Pep Guardiola, che avrebbe dato vita a una delle sperimentazioni più suggestive della storia del calcio: il calcio totale fondato sulla rete di passaggi e sulla transizione immediata affidato a una generazione di giovani di talento. In realtà, la Federazione aveva deciso di virare su un progetto tattico molto pragmatico: sostanza e risultati, con la fantasia come optional.

Luiz Felipe Scolari e Carlos Alberto Parreira
Una loro rinnovata vittoria mondiale è una missione possibile?
In vista di un mondiale che il Brasile non può permettersi di non vincere, la scelta appare comprensibilissima  anche se può non piacere a trisvalide di talento come Zico, che provano a dare alle tendenze in atto una riposta fondata sull’interpretazione della storia. La coppia Luiz Felipe Scolari e Carlos Alberto Parreira, i CT che hanno dato al Brasile le ultime due coppe del mondo, sembra fornire quell’esperienza e quel pragmatismo che altre soluzioni ventilate – Muricy Ramalho e Tite, allenatori di recenti vittorie grazie a un’idea di gioco propositiva e offensiva – potevano alla fine non garantire, anche per un deficit di esperienza che invece dovrebbe essere assicurato dai due ultrasessantenni prescelti [vedi la VQA].

Gli osservatori superficiali sono ancora convinti che l’identità del Brasile futbolistico sia quella del “jogo bonito”, del calcio tutto fantasia, talento e individualità: di giocatori come Garrincha, Pelé, Zico e Ronaldinho, per intenderci. È una bella favola oleografica che piace ai nesci. La storia del calcio brasiliano dell’ultimo mezzo secolo è invece diversa ed ancipite, come ha ben messo in evidenza Tim Vickery [in “The Blizzard”, 6 (2012)]. Da un lato persiste la tradizione del futbol fantasia – risalente alla cultura del “malandro” (l’artista mulatto del raggiro) indagata dal sociologo Gilberto Freyre negli anni trenta [come ricorda Alex Bellos, Futebol. Lo stile di vita brasiliano, pp. 43-44] – che celebra l’epopea del Brasile di Pelé e delle sue tre coppe del mondo in sole quattro edizioni, ha toccato il proprio zenith nel 1970 (con uno degli XI più memorabili della storia) e riconosce nella nazionale del 1982 l’ultimo degno epigono. Dall’altro è sempre più diffusa e legittimata una linea che si usa far risalire al colpo di stato militare del 1964 (di cui, nell’anno dei prossimi mondiali sarà inevitabile ricordare la ricorrenza) e alla politica “tecnocratica” che il nuovo regime cercò di imporre e attuare in tutti settori sociali, compreso il calcio: è infatti a un’idea di calcio organizzato, affidato a un sistema di gioco tatticamente accorto, cui si rifecero le nazionali del 1974 e del 1978, e a cui si devono le vittorie del 1994 e del 2002; è lo stile incarnato da Dunga dapprima come leader in campo e poi come CT della nazionale; è una linea culturale che ricorre all’organizzazione prima che alla fantasia, senza ovviamente rinunciare alla qualità, se ricordiamo come nell’XI del 2002 militassero campioni e talenti riconosciuti come Cafù, Roberto Carlos, Rivaldo, Ronaldinho e Ronaldo. E senza dimenticare – peraltro – che anche per questa via sono arrivate le vittorie [su questi punti vedi anche Jonathan Wilson, “The Guardian”, 14 August 2012].

Questo è dunque il contesto del discorso – tutto brasileiro – che probabilmente intendeva portare avanti Zico con le sue esternazioni. Altra cosa è tornare invece sulla storia del match del 5 luglio 1982 [vedi].

Azor