5 luglio 2012

Ancora pensieri, ancora parole

(continua dal post precedente)
Die Deutsche Fußballnationalmannschaft
La nazionale multietnica tedesca
eliminata in semifinale a Euro 2012
Comincio a pensare che anche per i tedeschi si possa parlare di un caso clinico. Anche a loro manca da tempo il colpo del k.o. all’ultimo chilometro. Se non vinceranno il mondiale del 2014 la loro astinenza da successi internazionali diventerà la più lunga nell’età del calcio moderno, superiore ai 18 anni che intercorsero tra la vittoria mondiale del 1954 e quella europea del 1972. È dal 1996, infatti – CT colui che fece outing tra i primi, senza attendere il Pavone: il mitico Berti Vogts, l'unico ad aver vinto il campionato europeo sia da giocatore sia da allenatore –, che non vincono nulla (la Grecia, al confronto, vanta un titolo più fresco …): ci sono andati vicini nel 2002 e nel 2008, approdando per l’ennesima volta in finale, ma inutilmente. Eppure, teutonicamente, hanno cercato di porre rimedio alle magre subite (dopo il 4:1 che gli rifilammo a Firenze – così, a gratis, anche in amichevole – alla vigilia del mondiale 2006 erano precipitati al 22° posto del ranking FIFA) puntando sull’organizzazione di base (scuole e accademie) e sull’educazione dei giovani (investimenti colossali nei settori primavera): un progetto encomiabile, da paese “serio” (e lo dico – per una volta – senza ironia), ma i risultati non sono ancora arrivati, a dimostrazione che non è, di per sé, una strada sicura e che vale quanto l’improvvisazione in cui siamo invece maestri noi (che non siamo un paese serio ma solo un grande paese con la saggezza e la cultura di 3.000 anni alle spalle). Certo, per ben due volte recenti, ci hanno trovato sulla loro strada e hanno pagato dazio come sempre, ma non è colpa nostra se non riescono a vincere. C’è dell’altro, evidentemente.

La vocazione artistica di Franz Beckenbauer e Gerd Muller
qui colti mentre recitano in una pièce ambientata nelle Highlands
Con impegno, dopo la riunificazione del 1990 i teudisci hanno puntato sul politicamente corretto, accogliendo anche nelle casacche bianche i figli della globalizzazione (turchi, polacchi, ghanesi, spagnoli, etc.), e sul rigore organizzativo. Hanno puntato cioè su politica ed economia: strumenti inadeguati però, da soli, per uscire dalle crisi, come stiamo constatando in questi anni amari. Manca l’umanesimo, cioè: l’investimento in arte e in cultura. Ai ben nutriti ragazzoni alamanni attuali mi sembra che manchino del tutto quella verve creativa e quella genialità che colorò la grande epopea della nazionale guidata da Helmut Schoen: non rintraccio l’obliquità di un Gerd Muller e un Gunther Netzer, la spavalda gioventù di un Paul Breitner e un Uli Hoeness, nemmeno la maestosa dialettica di un Franz Beckenbauer. E non si tratta meramente di generazioni: qui è in gioco il contesto culturale. Nelle inamidate camicie di Jürgen Klinsmann e di Jogi Manicarrotolata vedo solo un ricercato perbenismo cool, lo sforzo di un popolo di accreditarsi come smart agli occhi di un mondo che continua a stimarlo senza amarlo. Ma non vedo alcun artigianato, solo un prêt-à-porter. È la cultura dei centri commerciali e degli snodi autostradali e aeroportuali: “non luoghi” senza radici. Molto lontani, ormai, dai centri storici delle città spagnole e italiane, dai quali sembra continuare a passare il presente e non solo il passato. Anche calcistico.

L'altra Europa

10 giugno 2012, Stadion Miejski, Poznan
Giovanni Trapattoni richiama all'ordine anche Nikica Jelavic
La classifica finale di Euro 2012 è elitaria, restauratrice: stavolta non ha ammesso ai ranghi di nobiltà né turchi, né russi, né greci o boemi. Non ha ammesso nemmeno, come è ovvio, i portoghesi. In realtà, devo fare mea culpa nei confronti del Circus do Portugal, che ritenevo che avrebbe recitato, come tante altre volte, un ruolo di secondo piano. Sono arrivati a una traversa dalla finale dopo avere imbrigliato come nessun altro gli spagnoli, ma è mancato loro, come sempre, qualcosa per vincere. È un qualcosa che hanno avuto, probabilmente, solo negli anni ’60 e che proveniva dal Mozambico: cioè un grande centravanti, Eusébio da Silva Ferreira. Da allora suppliscono all’assenza di un erede adeguato con l’onanismo del palleggio, e nemmeno la sopravvalutata Lara Croft è in grado di colmare la lacuna: dedizione tattica, un buon portiere, alcuni robusti ronzini a difesa, un bel centrocampo (Moutinho sugli altri) e poi il nulla davanti se non la soluzione individuale alla Ronaldo, che va bene una volta ma le altre tre fallisce. Mi ero invece fidato dei russi, perché a guidarli era uno straniero di quelli con esperienza e capacità: ma sono sprofondati nel loro oblomovismo, che solo il turgore sovietico era riuscito talora (benché poche volte) a vincere; se la giocheranno tutta nel 2018. Sembra essersi ormai cronicizzato, invece, il clima di banlieue che ha sostituito nello spogliatoio francese, e nei salotti intellettuali parigini, l’illusione della nazione multietnica alimentatasi mitologicamente intorno alle prodezze di Zidane, Thuram, Lizarazu, Djorkaeff e Deschamps: nel 2010 l’ammutinamento era stato guidato da Patrice Evra, stavolta il fallimento ha i tratti somatici di مير نصري‎; e non è un caso che Laurent Blanc abbia salutato la compagnia. Reso omaggio alle dignitose (nulla più) performance di greci, cechi, croati e ucraini – e rammentata con simpatia la gita alcolica della banda del Trap –, resta da dire dei tulipani appassiti olandesi, che hanno giocato il ruolo della nobile decaduta: più rileggo i nomi delle formazioni messe in campo più fatico, però, a trovarvi dei campioni; al più sono dei sopravvalutati mezzoni, eponimo tra i quali l’infausto Arjen Robben; il loro treno era passato in Sudafrica due anni fa e non sono stati capaci di salirci sopra.

Stelle cadenti
19 giugno 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
Due grandi flop di Euro 2012: Franck Ribery e Karim Benzema
Come ad ogni torneo, abbiamo visto scomparire nel buio cosmico, e talora nemmeno accendersi, un buon numero di stelle, stelline e presunte tali. Ogni nazionale sciorinava alla vigilia le sue. Ma la logica delle partite senza ritorno ogni quattro giorni è una falciatrice spietata che miete vittime di ogni rango e grado. Una cosa è tirar fuori qualche bella performance in eurovisione ogni due settimane durante le coppe stagionali, sostenuti da squadre multinazionali di club, altra invece prendere in mano compagini nazionali di minore caratura tecnica e aggiungere classe e temperamento non per 90 minuti ma per tre, quattro, cinque partite di seguito nel giro di 10-15 giorni. Sono pochi i grandi giocatori capaci di ergersi in questo agone: i campioni delle due finaliste e pochissimi altri. La delusione viene da giocatori navigati come Rosicky, Baros, Arshavin, Nani, Van Persie, Sneijder, Modric, Evra, Malouda, etc., dei quali i media cantano lodi sperticate per qualche numero fatto vedere tra Premier e Champions League, ma che – alle strette – mostrano tutti i loro limiti di personalità. E che dire poi di Rooney, Cech, Benzema, Ribery, Schweinsteiger, Gerrard, Terry, etc. e – se vogliamo – degli stessi Ronaldo e Ibrahimovic (complessivamente, anche loro, deludenti, aldilà di qualche numero ad usum nesciorum)? Semplicemente che sono dei giocatori sopravvalutati da tifosi e “addetti ai lavori” senza memoria e cultura storica. Nessuno di questi nomi ha il valore di una pentavalida, a mio avviso.

Valide e bisvalide
16 giugno 2012, Stadion Narodowy, Warszawa
Due belle conferme di Euro 2012: Roman Shirokov e Giorgos Samaras
In un calcio mediatizzato e globale come l’attuale, un torneo come questo non è più in grado, come avveniva invece in un passato anche abbastanza prossimo, di fare conoscere nuovi giocatori di talento, perché non esistono più gli sconosciuti. Nondimeno mi sono appuntato un po’ di nomi di pedatori che ho apprezzato per qualche giocata non episodica, per una qualche cifra di talento che comunque possiedono e hanno messo in mostra, pur senza assurgere tra i grandi protagonisti del torneo. Penso a Hubschman, Jiracek e Plasil, a Samaras e Salpigidis, a Blaszczykowski e Lewandowski, a Dzagoev e Shirokov, a Khron-Delhi, a Hummels e Reus, a Moutinho e Varela, a Mandzukic, a Bonucci, Marchisio e Cassano, a Young e Wellbeck, forse a Debuchy. Tra questi alcuni sono degli onesti pedatori, alcuni delle valide, forse due o tre delle bisvalide. Aggregati ai 23 elencati dall’UEFA (tra i quali sono i grandi protagonisti del torneo ma anche alcune effigi messe lì per motivi politici e di sponsor) ne vengono fuori due rose: una quarantina abbondante di giocatori, che è stato un piacere guardare e che hanno sodisfatto la mia lubrica passione di voyeur. Non mi sottraggo al giochino della formazione ideale e schiero: Casillas, Piqué, De Rossi e Ramos in difesa; Khedira, Xavi, Pirlo e Alba in mezzo; Silva, Balotelli e Iniesta davanti (e, si noti, non è un 3-4-3, ma un ortodosso 2-7-1).

Le regole del gioco
9 giugno 2012, Arena Lviv, Lviv
Stéphane Lannoy appioppa un bel cartellino giallo
a Hélder Postiga già al 13°
Credo che mai come in questa edizione la qualità del gioco, mediamente alta (come era anche nelle aspettative climatiche), sia stata aiutata dalla correttezza in campo dei giocatori e dalla politica arbitrale nel suo complesso. A parte la svista di Vad (che rischia comunque di costare cara), l’esperimento dei cinque arbitri ha funzionato bene, riducendo gli errori dei guardalinee sui fuorigioco a livelli accettabilissimi e inducendo i giocatori a non dare vita ai consueti teatrini sui calci da fermo, alle simulazioni e al gioco duro più disgustosi. È stata una boccata d’ossigeno rispetto alle pratiche indecorose di maleducazione e violenza che condiscono le partite nei campionati, soprattutto in quello italiano (dove una rimessa laterale assurge a questione di vita o di morte). A conferma che se la mano è ferma, perché ispirata dall’alto, i protagonisti (dai Pepe ai Busquets, dai Terry ai Nasri, dai Ramos ai Balotelli, etc.) si adeguano. Ne esce confermato anche che quando le nazioni ospitanti sono di secondo piano (dal 2008 è così) i favori arbitrali ai padroni di casa (di cui, per dire, il nostro Sergio Gonella si rese triste protagonista a Buenos Aires nel 1978) sono quasi impalpabili. Oggi si riunisce l'International Football Association Board che molto probabilmente comincerà a snaturare con la tecnologia il gioco più bello del mondo: ha ragione Platini, se cominci con la linea di porta poi la applicherai a tutto il resto. Temo che abbiamo appena assisto al canto del cigno di un’epoca.

Il futuro dell’Euro
Lo stadio destinato a ospitare la finale di Euro 2020 è già pronto
A Roi Michel non difetta certo l’intelligenza, ma non illudiamoci: è pur sempre un navigato gran figlio di buona mamma. Se su arbitri e tecnologia concordo, sulla riforma della formula della fase finale sono invece assai perplesso, anzi sono scorato perché colgo l’ineluttabilità delle motivazioni politiche ed economiche che la ispirano. In Francia tra quattro anni ci toccherà assistere, come ai Mondiali, a partite orrende tra mestissime mandrie di ronzini. Già nelle settimane scorse ci siamo dovuti sorbire spettacoli come Polonia-Grecia, Francia-Ucraina o gli allenamenti offerti dall’Irlanda. Immaginiamoci con 24 squadre in lizza (con Estoni, Scotti e Montenegrini e altre simili scuole calcistiche, se va bene) … Per non dire dei gironi di qualificazione in cui passeranno perfino le terze classificate e si giocheranno centinaia di partite non per selezionare il meglio ma solo per dimezzare le federazioni iscritte all’UEFA. Gli studiosi di storia delle istituzioni sanno bene che il processo di proliferazione e superfetazione di organismi e procedure è una linea di tendenza riscontrabile in tutte le epoche e in tutte le società sostenute da una crescita economica. Potremmo allora sperare che la crisi che ci affligge – che ha caratteri più strutturali che congiunturali – induca a contenere il barocchismo delle manifestazioni pedatorie continentali. Ma Roi Michel è più furbo del diavolo, e ha già architettato la ricetta per il 2020: non più uno o due paesi organizzatori (con la greppia dei finanziamenti infrastrutturali, ormai sempre più difficile da sostenere e soprattutto da giustificare) ma 12 città con grandi stadi già belli pronti in giro per l’Europa in cui far disputare il torneo, lasciando che le squadre restino nelle loro Coverciano e si muovano il giorno prima delle partite, su scali facilmente raggiungibili, come già fanno nei week end di qualificazione. Provo a immaginare le città: Lisbona, Madrid, Barcellona, Parigi, Londra, Manchester, Amsterdam, Berlino, Monaco, Milano, Roma e Vienna (ma bussano anche Bucarest, Atene, Kiev e Warsavia …). La cosa ha un suo fascino, non lo nascondo. Vedremo, e rimettiamoci alla provvidenza di Eupalla.

Intanto riassaporiamo nella memoria, prima di darci all’oppio dei popoli e alla sagre estive (segnalo peraltro che la Champions League è già partita avantieri …), i momenti più belli di questa bella edizione.

Azor